Un deja-vù, così possiamo definire quello che sta accadendo in Belgio in queste ore sul Global Compact. Una vicenda che ci riporta con la mente indietro di una settimana, quando il dibattito sul piano Onu aveva infiammato la discussione dentro i nostri confini nazionali, rimandando la decisione al Parlamento. “Quello che sta avvenendo in Belgio può essere messo in relazione con ciò che è accaduto in Italia, anche se la situazione è ancora più chiara, direi netta”, afferma Matteo Villa, esperto di migrazioni dell’Ispi, in una conversazione con Formiche.net. “In primo luogo c’è da prendere in considerazione il tempismo elettorale. In Belgio, infatti, si voterebbe, in maniera programmata, a maggio del prossimo anno, in coincidenza con le europee. Potremmo definire questa mossa, dunque, un po’ come una resa dei conti, una campagna elettorale anticipata”, continua. Il governo di centro-destra belga, infatti, sta lottando per la propria sopravvivenza, dopo che il maggior partito della coalizione (Nva) si è smarcato dall’alleanza con i suoi partner, affermando il suo deciso no al piano delle Nazioni Unite sulle migrazioni. E se il primo ministro Charles Michel, proprio come era avvenuto a Giuseppe Conte e Enzo Moavero Milanesi, si era inizialmente impegnato direttamente in sede Onu alla firma e alla partecipazione all’incontro di Marrakech, una campagna social a firma Nva, che lasciava poco adito alle interpretazioni (e poi ritirata), ha preceduto e aperto la strada al passo indietro del primo partito dell’alleanza neofiamminga.
Cosa sta accadendo in Belgio? E quanto questa situazione può essere messa in relazione con l’Italia?
La destra al governo belga, che si è sempre spesa moltissimo sulla questione delle migrazioni ed è decisamente anti-migranti, si è resa conto che il suo stesso esecutivo era preposto alla firma del trattato e si è lasciata prendere la mano in una campagna radicale contro il piano Onu. In questo modo ci ritroviamo in un vero e proprio corto circuito e allo stesso tempo viviamo un paradosso, considerato che nonostante il Global Compact non sia una dichiarazione vincolante, sta comunque avendo ripercussioni fortissime in Europa. Dall’Italia, dove comunque non si è rischiata la crisi di governo ma c’è stata la riproposizione di uno scontro che va avanti da mesi, al ministro degli Esteri slovacco che si è dimesso perché contrario alle posizioni del governo anti-migrazioni e la presidente croata che si è opposta alla firma ma è stata smentita dal governo.
Qual è il corto circuito che alimenta queste decisioni in Europa?
Siamo in campagna elettorale permanente in molti Paesi e, a maggior ragione avvicinandosi le europee, anche chi non è solito usare una forma di comunicazione propria delle campagne elettorali permanenti, le usa lo stesso. In più bisogna dire che le migrazioni sono un argomento tossico perfetto per polarizzare l’opinione pubblica e fare punti sui social network. Non dico che ciò che accade sui social media cambi in maniera radicale il consenso dei partiti. In Italia, per esempio, non è che Fratelli d’Italia abbia aumentato i propri consensi grazie alla propria campagna social, però questa ha conseguenze politiche rilevanti. Quando i dibattito si fa sui social, mirando alla pancia dell’elettorato, questo diventa difficile da smentire e si riduce a uno slogan.
Che futuro potrebbe esserci in Europa a livello di migrazioni, con queste premesse?
Per quanto riguarda le migrazioni le posizioni le conoscevamo, soprattutto dei Paesi Visegrad. Il problema dell’Italia è che si trova nel Mediterraneo e oggettivamente non può allearsi con Visegrad perché il suo non è un confine di terra. Voler chiudere le frontiere, inoltre, può avere delle implicazioni diverse rispetto a chi si sofferma sulla chiusura dei confini di terra. Questo non vuol dire che negli ultimi mesi non ci sian stati dei progressi: si può dire infatti che i migranti si sono ulteriormente ridotti rispetto a quando c’era Minniti, anche se le conseguenze di queste politiche sono state poi altre: tra tutte l’aumento dei morti in mare e le condizioni delle persone detenute in Libia.
Soluzioni possibili?
Se ci chiudiamo dentro non abbiamo possibilità di avere solidarietà degli altri Paesi europei e non ci sarebbero nemmeno le condizioni per favorire altri rimpatri. Mettersi su un piano collaborativo e di apertura è la soluzione, soprattutto quando si tratta di accordi non vincolanti. Siamo isolati e non firmare il Global Compact non ci avvicina di più ai Paesi del gruppo Visegrad. D’altra parte tutti i Paesi che non firmano decidono di guardare il proprio ombelico e il loro elettorato più che all’Europa e alle necessità e alle conseguenze di lungo periodo sulla politica estera. E quello che sta accadendo ai fiamminghi è un po’ lo specchio di questa situazione.
Lei ha parlato anche di Slovenia e Croazia. C’è il rischio di un effetto domino? Di un contagio ad altri Paesi europei?
Da novembre questo sta già avvenendo. Se prima c’erano solo gli Usa che si erano tirati fuori, poi man mano la questione si è estesa ulteriormente. Anche in Paesi come la Spagna, dove il dibattito molto poco intenso (anche se sono aumentati i flussi negli ultimi mesi). Per non parlare della Germania dove Angela Merkel ha dovuto lottare per non fare in modo che la discussione non arrivasse in aula. In Francia, poi, con le dichiarazioni degli ultimi tempi di Marine Le Pen.
Anche in questi casi è sempre riconducibile a quella che definiva campagna elettorale costante?
Sì, campagna costante e anche la facilità con la quale si riduce una discussione complessa ad uno slogan che poi è totalmente differente dal contenuto effettivo delle cose.