In questi giorni la presidenza Trump è tornata al centro del dibattito pubblico internazionale per l’annuncio dell’uscita dalla Siria e della contrazione dell’impegno in Afghanistan. Due passaggi importanti sotto il significato politico, oltre che dal punto di vista tecnico-strategico e delle evoluzioni sui teatri interessati. Ne parliamo con Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss Guido Carli e consigliere scientifico di Limes, la prossima primavera in edicola con un libro dal titolo emblematico: “Capire Trump”.
Sembra qualcosa di eccezionale quello che ci siamo trovati davanti nei giorni scorsi, e invece per gli osservatori sono scelte aderenti alla linea trumpiana, e forse pure obamiana: giusto?
Personalmente, è ciò che penso. Quanto sta accadendo in questi giorni è del tutto aderente al programma con il quale Donald Trump si è fatto eleggere, che prevede il graduale ritorno degli Stati Uniti alla postura che avevano prima della Guerra Fredda. Non è una manifestazione di debolezza, ma il riflesso di uno stato d’animo che sta consolidandosi all’interno dell’opinione pubblica americana, presso la quale le argomentazioni del nazionalismo jacksoniano stanno guadagnando forte consenso.
Si parla di isolazionismo, è corretto?
La svolta che Trump sta imprimendo alla politica americana non nasconde una tentazione neo-isolazionista, come pure si sente dire in giro, ma un cambio delle modalità attraverso le quali Washington vorrebbe esercitare il grande potere di cui ancora dispone. Gli elettori americani non capiscono più perché i loro soldati debbano rischiare la vita in teatri nei quali gli Stati Uniti non hanno interessi diretti o, peggio ancora, per estendere i valori del loro ordinamento a paesi culturalmente tanto diversi dal proprio e probabilmente non pronti ad accettarli.
Ma l’America sta mantenendo il suo ruolo negli affari globali?
L’America non si gira dall’altra parte. Le sue priorità le mantiene. Sta solo passando ad una modalità di controllo “in remoto” degli affari mondiali. Creare un comando indipendente per le forze “spaziali” questo significa. Inoltre, visto che la condivisione consensuale dei costi e dei ruoli nel mantenimento della sicurezza internazionale non funziona – il famoso livello delle spese militari al 2 per cento del Pil in area Nato è più lontano che mai – Trump la impone per default. E in questo opera esattamente come il suo predecessore Barack Obama. In effetti, si tratta di due presidenze strettamente connesse. Quella di Trump è il secondo tempo di un cambio di paradigma che è iniziato sotto il predecessore. All’attuale presidente non interessa il controllo fisico dei territori, che percepisce invece come una passività.
Nel frattempo il capo del Pentagono, James Mattis, ha annunciato che lascerà il suo ruolo da febbraio. C’è (forse c’è sempre stato) uno scontro profondo che riguarda le visioni strategiche tra i due, e con l’uscita di Mattis, dopo quella di altri due pezzi importanti del “sistema-dei-generali” di cui la Casa Bianca s’era circondata (mi riferisco a HR McMaster, ex consigliere per la Sicurezza nazionale, e John Kelly, tra pochi giorni ex capo dello staff) sembra che anche l’azione normalizzatrice di questi elementi sia stata superata: che Trump vedremo nel prossimo futuro?
I jacksoniani americani sono molto sensibili al prestigio dei militari. La scelta fatta inizialmente da Trump in favore di alcuni generali di grande autorevolezza – ma esclusi dalle cariche più importanti durante i mandati dei predecessori – è stata un riflesso importante di questo approccio nazional-populista. Ma è stata anche una conseguenza del percorso particolarissimo che ha portato Trump alla Casa Bianca senza un proprio partito alle spalle. Il presidente ha scommesso sulla lealtà dei militari alle istituzioni e – stando almeno a quanto ci stanno raccontando i giornalisti investigativi americani – nel complesso i generali hanno attuato la linea, anche quando nel loro intimo non l’accettavano.
Qualcosa che sembra essere accaduto spesso…
Herbert McMaster era notoriamente vicino a John McCain ed è stato rapidamente estromesso dal circuito decisionale. Ma ora dev’essere stata oltrepassata una linea rossa. È chiaro che il ritiro dalla Siria e il drastico taglio della presenza militare americana in Afghanistan sono stati vissuti da qualcuno come una forma di arretramento intollerabile. È comprensibile, specie dal punto di vista di un militare che ha fatto la propria carriera in un corpo “expeditionary” come quello dei Marines. Mattis, tuttavia, mi pare stia andando oltre. La sua lettera di dimissioni contiene un messaggio di evidente natura politica.
E dunque, che Trump vedremo nel prossimo futuro?
Lei mi chiede che Trump ci aspetta adesso. Non eludo la questione. Con una Camera dei Rappresentanti che gli legherà le mani sul versante della politica interna, Trump dovrà investire molto sulla politica estera. I risultati negativi delle elezioni di medio-termine lo costringono ad assumere iniziative d’impatto. Sarebbe quindi logico attendersi altri passi come quelli appena fatti. C’è però un’incognita, che è rappresentata dall’influenza che è riuscito a ritagliarsi il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, che proviene da un’altra corrente di pensiero, molto più interventista. Vediamo chi Trump metterà al posto di Mattis. Venisse promosso Patrick Shanahan, un ex manager di Boeing che sta gestendo lo sviluppo delle forze spaziali, la linea jacksoniana del presidente sarebbe rafforzata. La scelta sarà cruciale per capire quale strada verrà imboccata. Tuttavia, una cosa mi sento di anticiparla: se qualcuno pensasse davvero ad una guerra contro l’Iran, beh, non è certo ritirando i soldati dalla Siria e dall’Afghanistan che la prepari…
C’è in questi passaggi la possibilità di una lettura laterale che riguarda lo spostamento di un asse di interesse strategico verso altre aree, e una concentrazione su quelle? Mi riferisco alla Cina, per esempio…
Gli Stati Uniti sono impegnati in un confronto che ha per posta in palio nulla di meno che la futura supremazia planetaria. Alcuni giorni fa, in una conferenza ospitata dal Washington Post l’attuale capo di stato maggiore delle forze armate americane, Joseph Dunford, ha chiaramente fatto intendere che l’America è preoccupata soprattutto dai progressi cinesi. Questa è la partita, una partita da cui dipende anche il benessere degli americani. Trump la vuole giocare soprattutto con le armi economiche e modificando l’architettura dei rapporti tra le maggiori potenze mondiali. Dazi e tariffe serviranno forse anche a migliorare la bilancia commerciale americana, ma a mio avviso vanno letti soprattutto come una forma di embargo strategico mascherato, che ha l’obiettivo di rallentare lo sviluppo tecnologico cinese.
Tra Cina e Stati Uniti è dunque un confronto strategico globale, non solo guerra commerciale?
Pechino vagheggia persino l’allestimento di basi sulla faccia nascosta della Luna, un passo che rivela ambizioni straordinarie. Come potrebbe l’America restare inerte? Tutti avete modo di constatare con quale durezza gli Stati Uniti si stiano muovendo contro Huawei, che tramite la gestione del 5G sarebbe in grado di raccogliere metadati ancora più sensibili di quelli che attualmente, ogni giorno, prendono la via dell’America. In questo panorama va inserita anche la politica russa dell’Amministrazione, che non è affatto il riflesso di una presunta collusione personale di Trump con Vladimir Putin.
Ci spieghi, professore…
Trump vuole ripetere, al contrario, la mossa con cui Henry Kissinger preparò la vittoria occidentale nella Guerra Fredda. Allora, Pechino venne staccata definitivamente da Mosca ed inserita nel circuito dell’economia globale. Ora è Mosca che va sottratta all’abbraccio con Pechino, a cui l’abbiamo costretta noi occidentali con misure davvero suicide. Lei mi dirà: ma se l’obiettivo è davvero una grande intesa con la Russia, perché tutte queste sanzioni e l’annessa narrazione antirussa? A mio avviso, per capirlo occorre tener conto di due fattori. Da un lato, opera il Russiagate. Questa inchiesta e il suo impatto sul Congresso costringono Trump alla prudenza. Dall’altro, invece, secondo me conta anche la tecnica negoziale del presidente. Il quale è convinto che quando si negozia un accordo, la parte che più ne ha bisogno è quella che deve ottenere di meno. Io resto ottimista.