“Servono ancora i cattolici in politica?”. Uno sparuto gruppo di deputati della scorsa legislatura aveva posto questa domanda tranchant come sintesi dell’impegno contro i profili eutanasici della legge 219/17 sul “biotestamento”, dopo aver contato appena 37 pallini rossi allo scrutinio finale del 20 aprile 2017 sul tabellone dell’Aula di Montecitorio (cfr. Servono ancora i cattolici in politica? Testimonianze del dibattito parlamentare sul valore della vita e sul testamento biologico, AA.VV., a cura di Paola Binetti, Ed. Magi, 2017).
La stessa radicale questione rimbomba, pressante e ineliminabile, ancor più dopo il voto popolare del 4 marzo 2018. Che ha impietosamente sradicato dal Parlamento italiano quel pullulare di gruppi, per lo più di piccola se non minuscola taglia, sedicenti “centristi” con formali pretese di rappresentanza cattolica e che solo alla Camera contava almeno sette (!) raggruppamenti per circa ottanta deputati.
Così, il Natale 2018 è forse il primo della storia repubblicana ad accadere in una sostanziale estinzione di una esplicita rappresentanza politica dei cattolici italiani. E mai come ora le ferite di una apparente estrema negatività fanno guardare, senza aver più nulla da difendere, all’annuncio natalizio, che la Chiesa propone in questi giorni, anche come sorgente di un giudizio e di una speranza per una presenza pubblica di nuovo baldanzosa e interessante per l’intero Paese.
Quel che, cioè, davvero conta è essere disponibili alla sfida di Papa Francesco: “Il Natale porta cambi di vita inaspettati: l’Altissimo è un piccolo bimbo. Chi se lo sarebbe aspettato? Natale è celebrare un Dio inedito, che ribalta le nostre logiche e le nostre attese, una sorpresa, non una cosa già vista” (Udienza generale, 19 dicembre 2018).
Sarebbe forse ragionevole sottrarre a questa dirimente provocazione esistenziale una dimensione della vita così essenziale come è quella del vivere assieme, del bene comune, della politica? Non è forse vero, d’altronde, che proprio nella difficoltà delle circostanze attuali cresce il desiderio di un nuovo inizio e si intuisce che prima di qualsiasi progetto organizzativo deve accadere un nuovo stupore di fronte al miracolo dell’esperienza cristiana vissuta e incontrata, che fa risplendere l’umano in tutti i suoi aspetti, a partire da quelli quotidiani e più stringenti? Si rimane – solo per fare uno degli infiniti esempi possibili – a bocca spalancata nel leggere, negli scritti di uno dei cristiani contemporanei più affascinanti, che il “lavoro, nel suo sforzo lento e faticoso, è il prezzo che l’uomo paga alla sua redenzione, è collaborazione al dilatarsi dell’alba della resurrezione a tutti i rapporti creativi che l’uomo vive col tempo e con lo spazio”, cosicché l’impegno di ognuno, per quanto umile sia, addirittura “riempie lo spazio tra la resurrezione di Cristo e la resurrezione finale” (Luigi Giussani, Perché la Chiesa, III, BUR 2012). Altro che l’alienazione di derivazione marxista o la riduzione di questi giorni, che propone l’abisso antropologico di un reddito senza lavoro, con ciò disconoscendo l’essenzialità dell’esserci di ogni singola persona!
E chi può negare che una sì entusiasmante concezione dell’uomo concreto nelle sue occupazioni e dimensioni reali, come è quella cristiana, sia utile a tutta la comunità civile proprio in questo grave momento storico e politico?
Innanzitutto, dunque, la rifondazione della presenza politica dei cristiani dipende dalla determinazione con cui verrà riconosciuta la centralità ai contenuti e agli ideali che esaltano la persona. Ideali che le opere, le comunità e il magistero sociale documentano con una ricca intensità di vita, alla quale non possono più corrispondere la distrazione, la banalizzazione o la disponibilità a compromessi al ribasso pur di mantenere il potere, che troppo spesso hanno caratterizzato l’azione dei sedicenti “politici cattolici” della seconda Repubblica finita il 4 marzo scorso.
In secondo luogo, poi, si impone una domanda sul metodo con cui dare forma ad una presenza pubblica. La postura umana che, anche in politica, è chiesta dalla sfida proposta dal pontefice di fronte all’annuncio cristiano è compatibile con una “solitudine” o non accende piuttosto una tensione unitaria?
Eppure, nella seconda Repubblica la diaspora politica dei cattolici è stata persino elevata a valore. Ognun per sé e tutti dispersi nelle compagini politiche più disparate, fino alla sagra finale degli acronimi poco-più-che-personali di pressoché chiunque avesse fatto una qualche carriera nel potere romano. E nello stesso perimetro “centrista” l’esplosione delle sigle è andata di pari passo con una triste, usurante e continuativa contrapposizione fra i vari ritenuti leaders, ognuno, per il vero, assertore di una teorica unità fra tutti gli spezzoni dell’area, la quale unità, però, avrebbe potuto avvenire solo attorno alla propria personale bandierina.
In sostanza, il voto del 4 marzo deve almeno consentire di guardare con oggettiva severità all’esperienza della dispersione dei cattolici, che ha condotto, in queste più recenti legislature, alla debolezza e all’irrilevanza nelle scelte legislative più decisive: quelle che, ad esempio, hanno rattrappito la difesa della vita, della famiglia, della responsabilità coniugale verso i figli, della creatività imprenditoriale, spalancando le porte all’inverno demografico che mina le prospettive delle prossime generazioni, o come quelle che, riproponendo ritrite dinamiche centralistiche, hanno rinsecchito la linfa di una reale rappresentanza dei corpi intermedi e dei territori, umiliati dalla sequela delle liste bloccate, che sono state la vera fissa delle leggi elettorali dal 1994 ad oggi, trasversalmente volute da tutte le forze politiche della Seconda Repubblica.
Il modello della diaspora va perciò abbandonato, raccogliendo con la massima serietà possibile il giudizio e le indicazioni del cardinale Pietro Parolin, quando il 24 novembre scorso, in occasione di un convegno per il centenario della morte del Beato Giuseppe Toniolo, ha chiesto esplicitamente ai cattolici di “interrogarsi sull’urgenza di una nuova stagione del loro impegno sociale e politico che, senza annullare le legittime differenze, si inalvei in percorsi unitari di orientamenti e propositi, sottraendo la presenza cattolica nella società alla tentazione dell’indifferenza e al rischio dell’irrilevanza“.
Porre al centro una domanda di percorsi unitari è davvero l’unico tratto di novità percepibile, l’unico passo coraggioso se si vuole una effettiva discontinuità con il recente passato e i suoi amari frutti. Ed è un passo per nulla ideologico, né autoreferenziale, perché un lavoro sulla base del principio di sussidiarietà cerca e vuole, invece, l’incontro con tutti coloro che, cattolici o meno, non si arrendono a una politica come mera ricerca di un consenso tanto facile, quanto fragile e contraddittorio, perciò non funzionale al bene comune. È il tempo, cioè, di proporre un perimetro comune a chiunque non accetti l’attuale dilagare della demagogia. Perché “mai come oggi – scriveva acutamente dalle pagine di Avvenire il 30 maggio 2018 il presidente della Cei, cardinal Bassetti – c’è un urgente bisogno di uomini e donne che sappiano usare un linguaggio di verità, senza nascondere le difficoltà, ma indicando una strada e una meta“.
Una (ultima) nota in calce: se questo “bisogno di verità” nella politica italiana è davvero “urgente”, allora non può essere ancora percepito come una questione riservata ai (presunti) addetti ai lavori. Urge piuttosto una linfa di relazioni, di attenzione, di tensione ai contenuti e alle esigenze dei corpi intermedi molto ampia e diffusa, che diventi osmosi continua fra società e politici, quindi anche fra comunità e gerarchie cristiane con la politica.
D’altronde solo nella Seconda Repubblica le classi dirigenti degli ambiti cattolici (ma anche quelle categoriali, sindacali e universitarie) non si sono seriamente interessate alle leve politiche. Tant’è che lo stesso cardinale Parolin, nel riflettere sulle origini del ruolo pubblico dei cattolici a inizio novecento, non le circoscriveva affatto alle capacità dei soli “politici”, perché “il centro vitale del fervore e dell’impegno sociale era la parrocchia, dove i parroci conoscevano in profondità le necessità e i bisogni dei loro fedeli e si impegnavano in prima persona con l’aiuto di collaboratori, associazioni, gruppi” (Fra popolo e Rerum Novarum, Scritti sul Veneto di Giuseppe Toniolo a cent’anni dalla morte, prefazione di S.E. Card. Pietro Parolin, Fondazione Centesimus Annus P.P., ottobre 2018).
Dopo cento anni, quindi, nella Terza Repubblica italiana riaffiora forse più intensa e consapevole la domanda di un’appartenenza umana e sociale di nuovo vibrante e vivace anche per la dimensione politica. E questo desiderio ha la forza, se non soffocato, per accendere, per il popolo cristiano ma non solo, nuovi “percorsi unitari”, necessari ai cattolici tanto quanto davvero utili per l’Italia tutta.