Cosa porterà in dote il 2019 per gli ex domini sovietici a est dell’Europa? La domanda che si pone Thomas de Waal, senior fellow al Carnegie Europe, è tanto opportuna quanto attuale. Le schermaglie di fine novembre nel Mar d’Azov, che hanno visto la marina militare Russa bloccare il passaggio a un rimorchiatore e a due cannoniere ucraine, hanno ricordato alla comunità internazionale come la crisi ucraina sia tutt’altro che congelata, e che anzi il rischio di pericolose escalation è sempre dietro l’angolo. In un simile contesto, sottolinea de Waal, è lecito chiedersi dove arriveranno le mire del Cremlino, se le future azioni di Mosca si limiteranno a tentativi di destabilizzare ulteriormente l’Ucraina in vista delle prossime elezioni nazionali o se invece i tentacoli russi si estenderanno sino agli altri Paesi della regione. Nel fare queste valutazioni, ammonisce de Waal, occorre però ragionare a mente fredda, cercando per quanto possibile di distinguere tra gli avvenimenti della più stretta attualità dai trend di lungo periodo.
A questo proposito, vale la pena soffermarsi sulla situazione della Transcaucasica, vale a dire la regione geografica del Caucaso meridionale che comprende Georgia, Armenia e Azerbaijan. In questi Paesi, nota l’esperto, l’eredità della dominazione sovietica sta lentamente scomparendo, insieme all’influenza che Mosca riesce a esercitare. Il numero di persone che parlano russo è in constante decrescita, così come l’audience dei programmi televisivi russi.
Sebbene la Russia resti per Armenia, Azerbaijan e la Georgia il vicino più importante, sempre di più Mosca si trova a competere con altre potenze regionali e globali, quali l’Unione Europea, l’Iran e la Turchia. Anche gli Usa sono presenti nella regione, anche attraverso importanti investimenti privati, mentre la Cina vede Caucaso meridionale una cruciale rotta di transito per le sue nuove Vie della Seta.
Mosca possiede una base militare in Armenia e tiene ancora circa 7mila truppe in Georgia, nelle province separatiste Abkhazia e nell’Ossezia del Sud. Questi ultimi due territori, nota de Waal, sono da considerare casi eccezionali. Già parzialmente staccati dalla Georgia dopo i conflitti del 1992 e 1993, entrambi si sono ulteriormente allontanati dal Tbilisi dopo la guerra del 2008, e da allora il loro isolamento dalla capitale non ha fatto altro che aumentare. Oggi, spiega il ricercatore, molti giovani georgiani non vedono il reintegro delle due province come una priorità. Ciò implica che l’integrazione economica di Tiblisi nell’Unione Europea, così come la sua partnership militare con gli Usa, possono procedere più spedite, perché i conflitti prolungati nel nord del Paese non possono più essere usati come una scusa per mancati progressi in questa direzione.
L’Armenia è un esempio ancora più lampante del declino dell’influenza russa nella regione. Da sempre alleato politico economico e militare di Mosca, Erevan è riuscita a liberarsi quest’anno del suo regime filorusso. La Rivoluzione di Vellutoha ha messo in luce l’impotenza di Mosca di fronte agli sviluppi sociopolitici che accadevano nel suo vicinato e più in generale ha confermato l’esistenza di un processo di emancipazione del Paese, che è sempre più deciso ad allontanarsi dalla sfera di influenza di Mosca.
Sia il nuovo primo ministro armeno Nikol Pashinyan sia quello georgiano, Mamuka Bakhtadze, spiega de Waal, appartengono a una generazione che può essere definita come la prima veramente non sovietica ed entrambi riflettono lo sviluppo di un’identità post russa nel Caucaso meridionale. Secondo l’esperto, i tre Paesi caucasici hanno trovato un modo per gestire la loro relazione con Mosca e se i loro leader non faranno errori macroscopici tali da metterli contro le loro popolazioni, hanno buone chance di superare anche il 2019 senza scontrarsi con la Russia. Il percorso da compiere è ancora lungo, ma si può già affermare che i tre Paesi hanno fatto passi da gigante rispetto a quando negli anni ’90 erano dilaniati da conflitti intestini e povertà estrema. Corruzione, povertà ed emigrazione continuano ad essere le principali sfide da affrontare, ma si può già affermare che le nazioni del Caucaso meridionale hanno imboccato la strada giusta per divenire attori autonomi e funzionanti nella scena internazionale.