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C come Cile e Cina. La cifra del 2018 di papa Francesco

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C’è una lettera che spicca nel 2018 di papa Francesco, la lettera C, come Cile ma anche come Cina. Lo scandalo della pedofilia ha messo a dura prova la Chiesa e il 2019 segnerà una svolta, quando a febbraio per la prima volta nella storia si riuniranno in Vaticano con il papa tutti i presidenti delle Conferenze Episcopali del mondo, ma solo se tra le due tesi prevalenti si affermerà quella che da tempo spiega proprio papa Francesco. È chiara, dai giorni in cui, dopo il colpo della scoperta che le cose in Cile stavano diversamente da come gli era stato spiegato: la Chiesa è il popolo di Dio, laici e consacrati insieme, non appartiene a questi ultimi. L’alleanza è con un popolo, non con un’élite. Solo assumendo questa verità si riuscirà a fronteggiare senza connivenze e senza coperture per paura dello scandalo il problema che ferisce la Chiesa in tanti paesi, e che deriva da quell’abuso di potere che alcuni conducono fin dove ci dice la cronaca. L’altra tesi, che il problema sia l’omosessualità di alcuni e che quindi è l’omosessualità a dover essere combattuta, non solo non centra il problema, ma lo trasforma in qualcos’altro da sé. Conosco, come moltissimi altri, una straordinaria famiglia australiana che ha avuto due figlie vittime di abusi nel loro paese. Come la metteranno con loro i teorici della seconda tesi? Chi avversa papa Francesco sostenendo questa tesi non ha davanti ai fatti le carte in regole per sostenere la sua tesi, che sembra proprio aver costruito a tavolino una tesi di comodo per giungere ad un altro obiettivo.

Il 2018 di papa Francesco è stato un anno molto difficile proprio per questo, perché le resistenze ad ammettere che il problema è l’abuso di potere e che la soluzione sta nel riconoscimento che la Chiesa è fatta da tutti i suoi figli. Io credo che solo riconoscerlo consentirebbe di recidere il filo di imbarazzo che ha creato da una parte la copertura per paura e dall’altra l’abuso sessuale. Tradotta in italiano da La Civiltà Cattolica prima che i siti ufficiali della Santa Sede si decidessero a fare lo stesso, la lettera di Francesco ai cileni sin dall’inizio chiarisce perché è indirizzata a tutti i cattolici cileni: “Quello di fare appello a voi, di chiedervi preghiera, non è stato un atto d’ufficio, e nemmeno un mero gesto di buona volontà. Al contrario, ho voluto inquadrare le cose nel loro preciso e prezioso posto e mettere il tema dove è bene che stia: il Popolo di Dio infatti ha la condizione della ‘dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio’. Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo; pertanto al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo stare molto attenti a questa unzione. Ogni volta che come Chiesa, come pastori, come consacrati, dimentichiamo questa certezza, sbagliamo strada. Ogni volta che cerchiamo di soppiantare, tacitare, annullare, ignorare o ridurre a piccole élite il Popolo di Dio nella sua totalità e nelle sue differenze, costruiamo comunità, piani pastorali, accentuazioni teologiche, spiritualità, strutture senza radici, senza storia, senza volti, senza memoria, senza corpo, in definitiva senza vite. Il fatto stesso di sradicarci dalla vita del Popolo di Dio ci fa precipitare nella desolazione e nella perversione della natura ecclesiale; la lotta contro una cultura dell’abuso richiede che rinnoviamo questa certezza”. Segue la frase cardine: “Il rinnovamento della gerarchia ecclesiale, di per sé, non genera la trasformazione a cui ci spinge lo Spirito Santo. Ci viene richiesto di promuovere congiuntamente una trasformazione ecclesiale che ci abbracci tutti”.

Se il volto di Dio si manifesta nella lavanda dei piedi, prosegue il papa, vuol dire che non può essere visto nella coercizione o nell’obbligatorietà, ma nel servizio. Allora il volto di Dio è nel discernimento, non in una supposta dottrina chiusa, la cui dinamica non genera mai domande o dubbi.

La questione non si pone correttamente usando intenzionalmente vocaboli duri come “pedofilia nella Chiesa”, ma si pone in tutta la sua vera enormità parlando di abuso di poteri su innocenti che deriva da una concezione del potere. Con questa visione si può pensare all’incontro di febbraio per plasmare una una cultura: perché collaborare, nelle forme e nei modi possibili nei vari paesi, con l’autorità civile nella denuncia e persecuzione dei crimini è un punto d’arrivo di un ragionamento, non di partenza.

Questa lettera è il passo più importante compiuto da papa Francesco nel corso del 2018 e che si unisce all’esortazione apostolica Gaudete ed Exultate, quella in cui si parla dei santi della porta accanto e della Chiesa che si sente loro come dei “grandi santi”, ma non diversamente da loro. “Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità ‘della porta accanto’, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, ‘la classe media della santità’”.

Quando è esploso il cosiddetto caso Viganò a me pare sia esplosa la questione posta da papa Francesco: sono pronti i “fratelli nell’episcopato” di Jorge Mario Bergoglio a seguirlo su questa strada? Sono pronti, cioè, a riconoscere che aveva ragione la signora Marie Collins, vittima di abusi sessuali dimessasi dalla Commissione per Tutela dell’Infanzia per numerosi motivi che la indussero a parlare di non collaborazione. A tale riguardo, a marzo 2017, lei disse: “La raccomandazione della Commissione di istituire un tribunale per giudicare i vescovi negligenti era stata approvata dal papa e annunciata nel giugno 2015. Finora la Congregazione per la dottrina della fede, ha trovato dei problemi ‘legali’ non meglio specificati, e così (il tribunale) non è mai stato istituito”.

Ma il 2018 di Francesco è stato anche l’anno della Cina, dell’accordo religioso, difficilissimo e quasi impensabile, con Pechino. Il potere imperiale cinese ha tradizionalmente riconosciuto nell’imperatore, e quindi nel nuovo imperatore, il segretario del Partito, “il figlio del cielo”. Quindi pensare che Pechino potesse arrivare a riconoscere al vescovo di Roma di essere il capo della Chiesa in Cina non era certo un risultato facile. Anche la Chiesa, come tutto il resto, doveva essere cinese e patriottica. L’accordo, complesso quanto si vuole, che ha portato per la prima volta nella storia due vescovi cinesi a partecipare al recente sinodo dei vescovi, è una svolta epocale; il prodotto di tanti anni di sforzi, a partire dalla lettera di Benedetto XVI, ma certamente anche della cura del segretario di stato vaticano scelto anche per la conoscenza della materia da Bergoglio appena eletto. Con questa intesa Bergoglio non solo ha sanato una ferita ecclesiale, tra cattolici patriottici e clandestini, ha dato una prospettiva fondamentale alla sua Chiesa, ma ha anche aperto una prospettiva nuova per un mondo lacerato. Che da molti la Chiesa cattolica venga associata all’Occidente è noto: ora papa Francesco ha dato alla Chiesa una prospettiva autenticamente universale, quella che senza una presenza effettiva e vitale in Cina non può immaginarsi. Conta per la Chiesa, conta per la Cina, ma conta anche per l’Occidente, che vede un ponte stendersi in un’epoca di muri e di dazi.

È in queste due C, quella cilena e quella cinese, la cifra del 2018 di papa Francesco, un anno fatto ovviamente anche di molto altro, fatto del sottovalutato sinodo sui giovani ma soprattutto della ferita lacerata dei migranti, il problema politico di questo nostro tempo da lui riconosciuto come tale dall’inizio del suo pontificato, che inaugurò recandosi, guarda un po’, a Lampedusa. È che quella rimanga la spina più dolorosa per tutti noi prima che per lui lo dice la parola che ha posto al centro della sua benedizione di Natale: “Fraternità”. Dove si andrebbe senza l’ascolto di questa parola non è difficile immaginarlo.

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