“Non hanno alcuna conoscenza di Gesù, non seguono che una congettura”: lo dice il Corano in riferimento a chi crede che il Cristo sia davvero morto sulla croce. Troppo caro a Dio per essere abbandonato su un patibolo, suo servitore prediletto innalzato al di sopra dei cieli senza esser costretto ad attraversare le strettoie di una morte violenta, il più importante dei profeti biblici, l’unico – oltre ad Adamo – a non esser nato da padre umano, figlio per ciò stesso della vergine Maria, che lo ha concepito prodigiosamente tramite l’intervento di uno Spirito proveniente da Dio, Gesù è menzionato tante volte nel libro sacro dei musulmani, sempre con grandissimo rispetto, dato che è reputato “un Verbo che viene” dall’alto: non propriamente il Figlio eterno di Dio, ma certamente la sua santa Parola (“Parola di verità” si legge pure) rivolta agli esseri umani. Quindi non alla pari con Dio, ma neppure un semplice uomo: piuttosto un uomo straordinario, l’uomo perfetto, gradito a Dio più di chiunque altro.
Il rimprovero coranico – ingiusto nei confronti di san Paolo e di tutti gli altri che hanno creduto allo scandalo della croce – spiega perché il Crocifisso rimanga un simbolo incomprensibile per i musulmani. Ma lascia intuire anche come il concepimento verginale e la nascita del Bimbo di Betlemme siano, invece, un punto fermo dell’islam. Oggi quel rimprovero sembra risuonare con maggiore ragione, smascherando le lacune delle maestre e dei presidi – battezzatissimi – che nelle scuole italiane si prendono la briga di censurare, nelle filastrocche natalizie, il nome di Gesù, mettendo in bocca agli scolari castronerie demenziali, della serie “il Bambino di laggiù”, o “il Bambino del Perù”. Un’ignoranza cristologica e un analfabetismo cristiano che fanno il paio con una crassa ignoranza coranica: ignoranza “interreligiosa” la si potrebbe definire con un pizzico d’ironia, o più precisamente “laica”, dato che alle ragioni della laicità alcuni di loro si appellano maldestramente. Così, a forza di esercitarsi nella calligrafia del politically correct, si abbandonano a madornali strafalcioni, scambiando la stella polare della modernità per un’ingenua cometa, disegnata male, opaca e spelacchiata: la laicità, difatti, non vieta lo spazio pubblico alle religioni e, semmai, esige che per tutte ci sia la possibilità almeno di qualche spiraglio. La laicità non equivale necessariamente all’ateismo di Stato e neppure all’agnosticismo. Meno che meno a una religiosità soltanto privata, intimistica, da subconscio. Gli americani l’hanno capito meglio di noi europei, correggendo la francese laïcité con l’inglese religious freedom.
Il “politicamente corretto” è, del resto, un micidiale boomerang: regala smalto al bigio cristianesimo anagrafico dei capipopolo e dà fiato a quei tromboni che hanno il pallino dell’antica tradizione, anch’essa peraltro fraintesa come mera consuetudine culturale e, al limite, come folklore di provincia. L’esito è disastroso: il mite Natale di Gesù viene brandito come una clava da sbattere in testa agli “altri”, a chi esprime un’altra visione religiosa e culturale, a chi proviene da altri lontani Paesi, a chi ha un differente colore della pelle, a chi è diverso da noi semplicemente perché è ancora più povero di noi e, perciò, più affamato, peggio vestito, inevitabilmente bramoso di ottenere qualcosa con cui sfamarsi e di cui ricoprirsi. Esimi giornalisti col pelo sullo stomaco o con la voce sottile mi direbbero che ora mi atteggio a buonista. Chi li legge o li guarda in televisione, ricordi che nel 1938 anche i giornali che pubblicizzarono le leggi razziali (Andrea Riccardi, giustamente, le chiama “leggi razziste”) criticavano il “pietismo filo-giudaico” di quei pochi che contestavano quella disumana discriminazione fascista.
Al netto di queste sgrammaticature, mi pare che si possa comunque restituire una certa serietà all’istanza di un approccio laico alla questione del Natale. Propongo – appunto – un presepe laico, da allestire magari last minute sotto l’obelisco di piazza San Pietro, con due soli personaggi: Gesù bambino e, accanto a lui, l’uomo che regge la lanterna. In alcuni dipinti che raffigurano la natività questa tipica figurina del presepe è identificata con san Giuseppe, messo un po’ in disparte, a illuminare la grotta in cui la Madonna espone alla vista dei pastori il piccolo appena nato. Io riposizionerei san Giuseppe, lo esporrei in primo piano, togliendo tutto il resto e concedendo alla Madre di ritirarsi in privato, a godere del sacrosanto riposo che una donna capace di una tale fatica sovrumana (oltre che di una tale esperienza soprannaturale) certamente merita. Nessun ammiccamento arcobaleno. Piuttosto uno sguardo a Diogene, che col suo lanternino in mano andava dicendo: “Cerco l’uomo”. E al signor Aurelio, protagonista de “Il vecchio Dio”, una novella pirandelliana del 1901, anche lui dotato di un piccolo lume, “convinto che Dio lo vedeva per quel suo lanternino”. Questo significa il Natale: far luce al Bimbo di Betlemme e, ancor più, lasciarsi illuminare da lui, l’”uomo nuovo”, che “rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo all’uomo”, come dice il Concilio Vaticano II in una sua bellissima pagina.
Lo spiegava bene papa Wojtyla il 25 dicembre 1978: “Natale è la festa dell’uomo, uno come tanti miliardi e al contempo unico e irripetibile. Se celebriamo così solennemente la nascita di Gesù è per testimoniare che ogni uomo è qualcuno, unico e irripetibile, qualcuno chiamato con il proprio nome”.