Il messaggio alle Camere che il presidente Cossiga inviò il 26 giugno 1991 è ancora una miniera d’oro per chi voglia studiare non solo la crisi che portò alla fine della cosiddetta “prima Repubblica”, ma anche per tutti coloro che vogliano davvero ricostruire un sistema politico che, ancora oggi, è ben lontano da un suo corretto funzionamento. Per Cossiga, ciò che aveva funzionato, in primo luogo, era la Costituzione, ovvero il suo presupposto, culturale e pre-politico, di accordo tra tutte le più importanti tradizioni politiche antifasciste.
Una tradizione che si era radicata nel popolo molto di più di quanto si potesse prevedere al momento della promulgazione della Carta Costituzionale. Certo, Cossiga si ricorda subito del primo elemento di crisi strutturale del sistema, che viene al pettine proprio negli anni ’90: il ruolo dell’esecutivo. Nella nostra Costituzione, il governo è gracile e debole per, mi si permetta il gioco di parole, costituzione: i Padri Costituenti erano spaventati da un Esecutivo onnipresente e onnipotente, quello fascista, scarsamente interessato perfino dalla Camera dei Fasci e delle Corporazioni, che lo stesso governo fascista aveva creato ex-nihilo.
Ma il pendolo della Storia oscilla per estremi, come quello della Fisica: dal testo costituzionale è venuto fuori un governo strutturalmente debole, senza vera autonomia parlamentare, un Esecutivo “dei Partiti” che, come il Parlamento stesso, è in mano ad equilibri di corrente, di alleanze temporanee, di rapporti tenuissimi tra i leader. Pietro Scoppola, in un testo celebre che certamente Cossiga conosceva, caratterizzò il nostro sistema politico come “la Repubblica dei Partiti”.
Tutto si organizzava infatti tramite i Partiti, appunto, che erano le ridotte e le trincee di un sistema politico in cui passava, con la sua massima forza, la guerra fredda. I partiti controllavano, dirigevano, costruivano le linee di azione dei governi e si radicavano fortemente, come squadre di calcio, nella pubblica opinione, organizzandola, anche in modo clientelare, per sostenere il sistema politico anche, e soprattutto fuori, dalla semplice lotta elettorale. Solo nel 1988, notava il Presidente, si era finalmente adottato un regolamento dell’Esecutivo, con la L.n. 400, in cui si disciplinava, rendendolo accettabilmente autonomo dal Parlamento, l’esecutivo.
Si noti inoltre che perfino uno dei Padri Costituenti, Paolo Rossi, socialdemocratico, notava nei suoi appunti come, tra i redattori del Testo, ci fosse la volontà di rimettere mano appena possibile e presto all’art. 95 e a tutta la normativa sul governo, senza le sacralizzazioni della Costituzione che poi abbiamo visto anche oggi, soprattutto tra gli ignari eredi di quella operazione di intelligence altrui che noi abbiamo chiamato “Mani Pulite”. Se, quindi, niente era sicuro e tutti potevano pensare di essere sbattuti all’opposizione, allora la Carta Costituzionale divenne una trama fittissima di controlli extra- e infra-legali, dove ai controlli istituzionali si sommavano altri lacci e lacciuoli, la “Costituzione materiale” di Costantino Mortati, in una fitta rete di controlli invisibili che non permetteva ad alcuno di svolgere quel ruolo che i politologi inglesi chiamano free rider.
La Costituzione, lo sappiano i suoi adoratori in ritardo, è stata pensata per dare un surplus occulto di potere a chi non poteva mai andare al governo, esecutivo che era sempre ricattabile da un sistema di pesi e contrappesi che avrebbe inibito la realizzazione di qualsiasi sua scelta governativa “radicale” e non trattata con gli altri, fossero o meno al governo. Chi abbia avuto modo di parlare con molti dei Padri Costituenti, soprattutto di area socialista e liberaldemocratica, sa bene che questo fu il risultato pratico della trattativa alla Costituente: la concretizzazione del grido di Togliatti: “fuori i buffoni” con cui il leader comunista mise fuori gioco la “terza forza” laica e socialista per favorire un contatto diretto, di transazioni ma anche duro e concorrenziale, tra cattolici e comunisti. La Dc perdeva quindi la sua fascia di protezione laica e liberale, e doveva trattare direttamente con il Pci, che vendeva cara la sua pelle. Cossiga, ne ho parlato tante volte con lui, riteneva che, dopo la caduta del Muro di Berlino, si dovesse quindi andare verso una regolarizzazione dei rapporti tra il vecchio Pci, che intanto aveva cambiato nome e “ragione sociale”, e il sistema delle forze che avevano sostenuto, dalla parte giusta, il grande fardello della guerra fredda in Italia.
Cossiga era stato il mastermind dei Servizi italiani, il referente di Stay Behind-Gladio per l’Italia, era stata la colonna della guerra fredda e di quello che il suo amico Edgardo Sogno chiamava “anticomunismo di Stato”. Ma Cossiga sapeva anche che un partito del 30% non si cancella con le operazioni coperte o con la sola propaganda atlantica. Al Pci occorreva rubare voti, mimando e prefigurando le sue azioni, per portarlo fuori dal quadro sovietico e per stabilizzare, in questo modo, la democrazia italiana. Un lavoro che il Welfare State cattolico e socialista del centro-sinistra svolse egregiamente. Credo che, su questo punto, Cossiga non avesse però del tutto ragione: il Pci era organico all’Est, solo che il Patto di Varsavia era una organizzazione più complessa e frazionata di quanto non si potesse pensare dal di fuori. Fu sua anche la scelta del giovane Massimo d’Alema come primo presidente del Consiglio ex-comunista, proprio per siglare la fine della conventio ad excludendum verso gli eredi del vecchio Partito Comunista e l’entrata, per dirla con una roboante e poetica frase di Pietro Ingrao, delle “masse nello Stato”.
Certo, occorreva sempre evitare di farsi condizionare, al governo, dalle azioni dell’opposizione, ma questo era demandato alle riforme costituzionali che, non a caso, il Pci fieramente contrastò. Ma fu la crescita economica colossale, frutto del particolare “socialismo cattolico” di tanta parte della Dc, anche di quella non di sinistra, vecchia eredità di Camaldoli; che era una destra cattolica che, peraltro, non apprezzava molto l’Alleanza Atlantica, che cambiò le carte in tavola. E, dopo la straordinaria crescita economica, che ci portava ben fuori dal tracciato geopolitico che avevano designato le potenze vincitrici della Seconda Guerra Mondiale, ci trovammo a operare nella crisi petrolifera e nella fine dell’accordo monetario di Bretton Woods.
Una fine voluta dagli Usa, che vollero spostare la loro colossale inflazione, generata dalla guerra nel Vietnam e dalla Great Society johnsoniana, verso il “carnefice europeo”, per dirla con Walt Whitman. La piccola Italia, destinata all’inizio a mantenersi con le linee secondarie di produzione dei Paesi vincitori, si trovò ad essere un Paese più ricco della Gran Bretagna, quella Inghilterra che aveva venduto, a caro prezzo, il suo Impero agli Usa, per pagare i debiti di guerra e, soprattutto, l’Italia divenne il Paese arbitro del Mediterraneo, almeno per quel che riguarda il petrolio. Ma, per salvare il salvabile, dopo la crisi petrolifera, la prima, si restrinse lo Stato del Benessere; e rallentò lo sviluppo economico che aveva trasformato in pochi anni un grande Paese agricolo in una potenza industriale.
Nacquero anche i “diritti”, ma soprattutto quelli individuali; il divorzio, avversatissimo dai comunisti che operarono fino all’ultimo con la nostra Legazione presso la Santa Sede, poi l’aborto, che modificò fin dall’inizio la struttura demografica nazionale ma, dice Cossiga, sono nati in quel periodo anche moltissimi “corpi intermedi”. Tra la politica d’abord, come la chiamava Pietro Nenni, e la vita civile di tantissimi italiani si sono inseriti numerosi organismi di tipo semi-privatistico: associazioni di volontariato, organizzazioni culturali, società sportive e perfino economiche no-profit, il che cambia profondamente, diceva Cossiga, la struttura politica della rappresentanza democratica del popolo italiano. In sostanza, il rapporto che Cossiga mette a fuoco è quello tra l’espansione della vita sociale, dell’economia, della cultura e della religiosità (soprattutto dopo il Concilio Vaticano II) e la rigidità delle istituzioni politiche, che nascono in una fase ben diversa della storia italiana. La Costituzione nasce dalla sconfitta, e da una sconfitta dura e talvolta ignobile delle classi dirigenti fasciste e monarchiche, ma, successivamente, l’Italia diviene la quinta potenza industriale del mondo, in una fase in cui sono i nostri titoli di Stato a far concorrenza a quelli tedeschi.
Ecco il punto: come il marxismo individua una tensione irresolubile tra forze produttive e rapporti di produzione, Cossiga individua una tensione irresolubile, nel contesto della vecchia Costituzione e del vecchio sistema politico, tra vecchio ordine istituzionale e nuovo sviluppo sociale e culturale degli italiani. Il timore era quello che poi si avvererà, in corrispondenza dell’attuale e profonda decadenza dell’Italia: la fine del “sistema dei partiti”, che va salvato anche quando la caduta del Muro di Berlino modifica tutto il quadro dello scontro tra destra e sinistra. Cossiga fu l’unico ad accorgersi che la caduta del Muro di Berlino parlava proprio dell’Italia: era la caduta delle nostre garanzie nei Balcani, con la fine della Serbia e, prima, della Jugoslavia federale, era la caduta dei nostri rapporti speciali con il Maghreb e la prevedibile destabilizzazione libica, era infine la fine del nostro ruolo, in fondo, di potenti mediatori tra Est e Ovest, ma con un forte ancoraggio in Occidente. Cossiga ci dice, tra le righe, che non avremo, in futuro, nessun amico e molti nuovi nemici. Il nostro “valore aggiunto” nella protezione e nel controllo della grande massa rivoluzionaria ad Est finisce, appunto, con la democratizzazione forzata dei Paesi dell’ex-Patto di Varsavia.
Che questo fosse un errore marchiano degli occidentali questo, Francesco Cossiga, proprio non poteva saperlo: l’idea americana che la Russia possa diventare una media-piccola potenza si scontrerà rapidamente con l’ascesa di Vladimir Putin prima ai Servizi e poi alla presidenza della Federazione. L’idea, poi, che i Balcani possano diventare un’area avanzata di controllo contro l’espansione russa si scontrerà, alla fine, con la diffusione del jihad nelle vaste zone islamiche della penisola balcanica. Chi ha pensato la geopolitica post-guerra fredda ha pensato poco e male, ma i fatti, come diceva Voltaire, “hanno la testa dura”. Soprattutto, ci sembra che abbia pensato a fare affari. Noi, siamo rimasti quindi senza un vero sistema politico, distrutto da una operazione esterna che noi abbiamo chiamato “Mani Pulite”; e siamo rimasti senza una classe dirigente che fosse capace di dirimere l’essenziale dal propagandistico. La “seconda” Repubblica è stata l’inizio della fine dell’Italia e di quello che era riuscita a fare durante la Prima. Né sono pronte, nemmeno oggi, le nostre istituzioni pubbliche all’unificazione europea, che oggi si rivolge, strumento di alcuni, contro il nostro Paese. Non sono nemmeno pronte, le istituzioni politiche, alla concorrenza mondiale che è sottintesa alla globalizzazione, mentre la rappresentanza politica, proprio per i motivi che notava Cossiga, è al minimo. Uno stato imploso su sé stesso, con una classe politica raccolta dalla strada, senza una idea di cosa stia davvero succedendo nel mondo e con un sostegno elettorale evanescente, pubblicitario, televisivo, vago, irrilevante.
È mancata quindi la riforma dei partiti, e oggi abbiamo, in Italia, solo le varie forme di “masse” che ha descritto Elias Canetti: quella aperta, quella chiusa, la muta, la massa aizzata, quella in fuga, la festiva e la massa dei defunti, quella invisibile. Cossiga amava leggere Canetti, questa citazione non è certo peregrina. Da qui, il deterioramento di ogni istituzione politica, fino alla sua riduzione proprio a muta: i governi che si susseguono, lo scontro senza limiti tra le Istituzioni dello Stato, la prossima fine, in tralice, della stessa legittimità del nostro sistema politico. Alla quale stiamo arrivando a lunghi passi. Ecco quindi la situazione, soprattutto oggi. A questo delinearsi della crisi istituzionale, politica, finanziaria, strategica, di legittimità che Francesco Cossiga lucidamente prevede, il Presidente elenca, nella sua lettera alle Camere, i progetti fino ad allora intentati per riformare le Istituzioni. I punti che Cossiga identifica, e che sono ancora attualissimi, sono: l’efficienza governativa, la stabilità degli Esecutivi, la riforma della finanza pubblica. Io aggiungerei: l’efficienza, con una Presidenza della Repubblica forte e legittimata elettoralmente, di un esecutivo che non sia solo parlamentare, ma anche emanazione del Presidente, poi la durata costituzionale dei governi per cinque anni, salvo casi gravi, infine la riforma della finanza pubblica, secondo la quale vengono delineate le spese e le coperture senza poi modificarle nel battage parlamentare.
Poi, una estrema attenzione all’equilibrio geopolitico, alla politica estera, a quella militare, all’intelligence, tutte questioni che la “seconda” Repubblica tratta come residuali, sena sapere che l’unico vero residuo da buttare è proprio quella classe politica che non capisce niente di queste tematiche. A tutto ciò potrebbe corrispondere una rete di autonomie territoriali vasta, con una serie di tasse regionali e locali prefissate e una parallela riduzione dei trasferimenti annuali dal Centro. Ma, in ogni caso, dovrebbe rinascere tutta la rete di partiti, dei movimenti, delle associazioni, dei gruppi spontanei che ha mantenuto in vita, fino alla crisi finale, la Prima Repubblica. Le “repubbliche del passante”, come le chiamava Max Weber, i sistemi politici in cui in cittadino vota senza pensarci, come se comprasse un salame, non fanno parte della nostra tradizione e non sono esportabili in Italia. Certo, molte teorie politologiche si sono avvicendate in questi anni di patologia del sistema politico, sociale, economico italiano. Come se avessimo perso una guerra e, in effetti l’abbiamo persa: è la battaglia globale della mondializzazione.
Manca, a tutte queste teorie, il senso della specificità del “caso italiano”. Si tratta, molto spesso, di adattamenti da modelli stranieri: il doppio turno francese, che ormai sembra un elemento di debolezza, se non ci sono i De Gaulle e i Mitterrand a organizzare la V Repubblica, il presidenzialismo all’americana, che non appartiene alla nostra cultura politica, dove la lotta è ancora “di classe”, non per sciocche linee artificiali e pubblicitarie. Infine, occorre evitare il regionalismo federale, che nega la vera radice del nostro Stato: il Risorgimento. Un tema al quale il cattolico Cossiga teneva moltissimo. Forse, occorrerebbe anche una forte riforma dei corpi separati, che nella “seconda” Repubblica si sono presi degli spazi che la Costituzione del 1948, in effetti, non prevede. La Magistratura, per esempio. Graziata dai Padri Costituenti per un suo, non del tutto espresso e comunque esagerato “antifascismo”, è divenuta l’unico potere assoluto e incontrollato del nostro sistema, quello al quale tutti gli altri si inchinano. Tutto nasce, oggi, dall’”operazione Mani Pulite”, e ogni forza politica deve, prima di tutto, prendere le misure dei suoi rapporti con i magistrati. Occorrerà quindi riformarla radicalmente, la classe dei magistrati: i processi maggiori saranno controllati dal ministro competente e/o dalla Presidenza del Consiglio, il Csm sarà controllato e presieduto, anche di fatto, dalla Presidenza della Repubblica, che non giocherà più alle belle statuine o non omaggerà più ritualmente, e inutilmente, la, peraltro inesistente, autonomia della magistratura.
Autonomia da che? Con quattro correnti dell’Anm, note e ufficiali e che si organizzano tra di loro perfino i concorsi per l’accesso alla professione, parlare di indipendenza della Magistratura è ridicolo. Abolizione delle correnti, quindi, sottoposizione dei magistrati al ministero competente, limitazione severa delle aree di intervento. Basta con i magistrati italiani che iscrivono nei registri degli indagati ufficiali dei Servizi egiziani, capi politici nigeriani, uomini d’affari indiani. Far inquisire per ben tre volte l’ex-direttore del Sismi, per poi scoprire che i governi, di varia natura politica, appongono ovviamente il segreto di Stato, non sarà più possibile. I Servizi, ecco un altro elemento centrale. Aumentare la dimensione e l’autonomia dei due Servizi, pardon, agenzie. Metterli sotto la direzione tecnico-operativa della Presidenza della Repubblica, che comunque ha l’obbligo di informare i Presidenti del Consiglio. Basta anche con la normativa dell’Autorità Nazionale della Sicurezza, una balia per Premier incompetenti. E meno male che l’Autorità è stata svolta, per più di un governo, da Marco Minniti, che Francesco Cossiga stimava moltissimo. Poi, l’intelligence avrà una definita libertà di movimento, della quale dovrà successivamente rendere conto al Presidente della Repubblica.
Ecco, queste potrebbero essere alcune idee utili per la Ricostruzione, prima che le macerie della “seconda” Repubblica si aggiungano a quelle della Prima. Ma com’è che la Prima Repubblica arriva alla sua crisi? All’inizio di tutto c’è, probabilmente, l’ingorgo istituzionale del 1992, quando le elezioni per il Parlamento e per la Presidenza della Repubblica coincisero. Andreotti rivelò l’esistenza di Stay Behind-Gladio per costringere Cossiga alle dimissioni, cosa che non accadde. Nel Nord vincono, alle elezioni, la Liga Veneta e la Lega Lombarda, che divengono, come prevedeva Cossiga, segnali della ribellione dei territori, che hanno un diverso “passo” dal governo centrale. In Sicilia, bacino di voti per la Dc come di grano per l’antica Roma, la mafia riversa i suoi voti, per protesta, sui radicali e i socialisti, abbandonando la Democrazia Cristiana.
Ma i mutamenti internazionali dettano l’agenda, anche italiana: nel luglio 1987 entra in vigore l’Atto Unico Europeo, il cui mercato unico vedrà la luce proprio nel 1992. Un atto in cui si prevedeva, per qualsiasi azienda europea, la possibilità di partecipare a gare d’appalto, anche per lavori pubblici in tutta l’Ue. Quindi, molti imprenditori riterranno sempre meno utile la prassi tangentizia. La futura moneta unica, poi, fa prevedere un aggravarsi della situazione del debito pubblico. Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici, stravinto da chi prospettava la sottoposizione dei magistrati al normale diritto civile, mette un altro elemento di crisi nel sistema politico, mentre iniziano le inchieste sulle varie stragi. Stragi cosiddette “di Stato”, su cui molto lavoreranno Servizi amici, nemici, lontani e vicini, il caso “Gladio”, le inchieste di mafia sono quindi il tridente che delegittima progressivamente il sistema politico, sostituendolo con il Nulla ondivago e demagogico di oggi. E fu in questo contesto, non dimentichiamolo mai, che il Presidente Francesco Cossiga mandò il messaggio fatidico alle Camere.