Le società contemporanee sono caratterizzate dall’onnipresenza di computer, Reti e tecnologie digitali. In questo articolo non esaminerò gli straordinari vantaggi prodotti dalla grande rivoluzione tecnologica che contraddistingue la nostra epoca. Desidero, viceversa, accendere i riflettori su alcuni effetti collaterali negativi destinati a produrre conseguenze preoccupanti sul piano dell’ordinamento politico e della coesione sociale.
Solo in tempi recenti gli studiosi hanno posto al centro delle loro ricerche empiriche i lati oscuri della rivoluzione tecnologica (I. Ben Israel, L. Tabansky, N. Crouchi, M. Libicki, Melissa Hathaway, et al.), esaminando criticamente il rapporto tra tecnologia e potere o, per essere più precisi, le tensioni intrinseche che contraddistinguono le relazioni tra tecnologia e democrazia da un lato e tra libertà e sicurezza digitale dall’altro. In precedenza, sin dagli anni Novanta, la maggioranza degli scienziati sociali aveva esaltato acriticamente la democrazia digitale, legittimando la speranza illusoria di una partecipazione diretta del singolo cittadino alla gestione del potere.
Il tema della compatibilità tra tecnologia e democrazia pone, viceversa, innumerevoli e complesse domande di ricerca. Qual è l’impatto della rivoluzione digitale sul concreto esercizio delle libertà politiche e civili dei cittadini, sull’indipendenza dei media, sulla separazione dei poteri, sul diritto individuale alla riservatezza, sulla tutela delle minoranze, sui diritti sociali e del lavoro? In sintesi, possiamo riassumere le numerose domande in questi termini: quali sono le implicazioni della grande trasformazione tecnologica rispetto ai valori fondamentali dello Stato di diritto e del welfare state così come li abbiamo conosciuti sinora?
Non c’è qui lo spazio per argomentazioni approfondite. Tuttavia l’ipotesi che intendo sostenere è che l’invenzione della rappresentazione binaria – oltre agli straordinari vantaggi – possa farci perdere rilevanti sfumature producendo una ipersemplificazione della realtà, solo apparentemente razionale. Cosa conta davvero nelle società caratterizzate da un alto grado di digitalizzazione? Non il valore del messaggio, ma la velocità di comunicazione; non il contenuto del progetto, ma la potenza di calcolo; non il significato della storia, ma la capacità di memorizzare; non i valori etici da condividere, ma l’impatto del microtargeting e il successo degli influencer; non la qualità delle relazioni umane, ma la quantità delle connessioni.
Queste tendenze incidono profondamente sul piano cognitivo e comportamentale dando luogo a fenomeni di dipendenza (più o meno patologici) prodotti essenzialmente da due fattori: sul piano percettivo dalla capacità magnetica dei computer; sul piano psicologico dalla paura di disconnettersi (per non parlare del panico da smarrimento del proprio smartphone). Le proprietà caratteristiche delle società digitali a cui abbiamo sommariamente accennato creano a loro volta un contesto ambientale particolarmente adatto all’idea che stiamo vivendo nella cosiddetta epoca della post-verità (in cui le menzogne anti-vaccini sono solo la punta estrema dell’iceberg).
La post-verità è un’espressione divenuta virale negli ultimi tre anni (nel web la parola post truth nel 2016 è salita del 2000% rispetto al 2015). Al di là della sua genesi e del suo successo, la post-verità costituisce un terreno particolarmente fertile per canalizzare le più sofisticate campagne di disinformazione. In un mondo – per parafrasare Giorgio Gaber – in cui “tutto è falso e il falso è tutto”, la distinzione tra Stati democratici e regimi illiberali non avrebbe più alcun significato.
Non so quanto questo rischio interessi ai colossi della Silicon valley, ma a noi cittadini deve interessare moltissimo. Gli informatici e i data scientist, e più in generale i maghi degli algoritmi, non dovrebbero dimenticarsi che la libertà e la democrazia sono valori assoluti con cui la tecnologia (più o meno intelligente) deve adattarsi a convivere.