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Perché in Egitto e Arabia Saudita non è il caso di spingere sull’acceleratore. Parla Bozzo (UniFi)

bozzo, roberto fico

L’Italia si trova davanti a un passaggio critico della sua proiezione internazionale: il presidente della Camera, Roberto Fico, ha annunciato la sospensione dei rapporti con l’Egitto, come protesta per la mancanza di verità e giustizia sul caso Regeni, ricercatore friuliano ucciso tra gennaio e febbraio del 2016 su suolo egiziano mentre stava seguendo le attività di dottorato per l’Università di Cambridge. Il Cairo ha risposto con reciprocità di misure. Contemporaneamente, in Commissioni Affari Esteri della Camera arriverà martedì una proposta del M5S con cui si vorrebbe mettere l’Italia alla guida di una proposta europea finalizzata a ottenere un embargo Ue con il quale impedire la fornitura di armi all’Arabia Saudita – questione che si collega alle vittime civili causate durante l’intervento per bloccare l’avanzata dei ribelli in Yemen, aggravata dal peso politico del caso Khashoggi, il giornalista saudita rifugiato in Virginia per proteggere le sue idee contro il potere di Riad, ucciso al consolato saudita di Istanbul da una squadraccia dei servizi del regno.

“Fare un’analisi della politica estera nazionale, allo stato attuale delle cose, non è compito dei più semplici: io comunque temo non vi sia una vera strategia d’insieme. Cosa non nuova, perché soprattutto nella storia più recente del Paese mi pare manchi la volontà e capacità di elaborazione di una grande strategia nazionale”, spiega Luciano Bozzo, presidente del corso di Laurea magistrale in Relazioni internazionali all’Università di Firenze e direttore del Corso in Intelligence e sicurezza nazionale. “Gli episodi ricordati sono accomunati più da una coincidenza temporale che da un calcolo politico. In definitiva si sommano, per certi versi pericolosamente, fatti e logiche diverse”, aggiunge il professore.

Che cosa c’è in gioco? “Se noi vogliamo ragionare in termini di grandi strategie nazionali, bisogna pensare dove si colloca il paese su certi dossier e quadri internazionali. Per esempio, nei grandi schieramenti mediorientali. Dove stiamo, con l’Iran o con l’Arabia Saudita (e dunque con gli alleati de facto, Israele e Stati Uniti)? L’Italia dovrebbe decidere dove schierarsi”, spiega Bozzo.

“Certamente questo non è un problema che nasce oggi, penso per esempio alla posizione assunta da Emma Bonino, ai tempi in cui era ministro degli Esteri, verso un maggiore ascolto delle ragioni iraniane, che comportava un avvicinamento a Teheran (non proprio la stessa posizione di Washington). Ora però dobbiamo avere un quadro chiaro. Una posizione anti-saudita, determinata in questo momento soprattuto dal caso Khashoggi, significherebbe un’oscillazione dell’Italia in senso anti-Riad e forse automaticamente verso l’Iran: vogliamo questo?”.

Il caso Khashoggi, come quello di Giulio Regani, sono due vicende fortemente legate a certi temi di diritti e valori umani, che però certe volte entrano in conflitto con interesse e proiezione nazionale all’estero: è così? “Credo di sì, la sovrapposizione potrebbe essere data, oltre che dalla coincidenza, da una questione di fondo molto interessante: l’antitesi in materia di politica estera tra esigenza di tutela dell’interesse nazionale da un lato, e dall’altro lato la tutela dei diritti. Ma dobbiamo essere realisti, queste due esigenze, spesso, entrano in conflitto: non è detto che battersi per la tutela del rispetto dei diritti della persona umana coincida con gli interessi nazionali”.

Per questo, continua il professore dell’UniFi, “l’aver rinfocolato la questione con l’Egitto, sebbene appaia nell’ottica di un legittimo desiderio di giustizia, potrebbe finire per metterci in una posizione di contrasto con quello che è un partner fondamentale per la stabilità dell’area del Mediterraneo, per gli interessi strategici energetici, così come per le tante piccole e medie imprese che lavorano con l’Egitto”. “Attenzione”, precisa Bozzo, “non sto dicendo che dobbiamo necessariamente sacrificare il principio e il valore della singola persona umana, ma non mi pare troppo prudente premere adesso sull’acceleratore”.

Perché? “Il rischio è che non solo ci crei problemi per quegli interessi strategici, ma soprattutto che questo atteggiamento non ci avvicini alla verità sul caso Regeni: anzi, conoscendo certe realtà, credo che ci allontani dalla giustizia sul caso. Così come avvenne nelle fasi più critiche della vicenda, quando l’Italia ritirò l’ambasciatore dal Cairo, e l’Egitto iniziò a giocarci contro. Contatti personali mi confermavano che in quel periodo l’Italia in Egitto era stata fatta praticamente fuori, si sceglievano partner non italiani (anche se gli italiani erano più accreditati)”.

Secondo le ultime informazioni, la Procura di Roma è pronta a iscrivere nel registro degli indagati una decina di egiziani, compresi alti ranghi dei servizi di sicurezza, responsabili di vario grado per quello che è successo al ricercatore italiano. “Sì, ma ci tengo a precisare che ancora c’è da capirne tanti lati, a cominciare dai conflitti interni al governo egiziano a cui potrebbe collegarsi. Inoltre ritengo che forse varrebbe ancora la pena di cercare di capire perché Giulio Regeni era in Egitto e con quali interessi specifici era stato inviato da chi ha commissionato la sua tesi di dottorato: anche lì ci potrebbero essere responsabilità, perché il tipo di lavoro che gli era stato affidato era oggettivamente pericoloso, e val la pena capire se c’erano solo interessi accademici o qualcos’altro”, dice Bozzo.

“Entrare in rotta di collisione, però, temo che non ci porti per niente verso la verità, ripeto”. Lo stesso discorso vale per l’Arabia Saudita? “A maggior ragione: quello di Khashoggi è un caso indubbiamente importante per l’opinione pubblica internazionale, ma se dobbiamo usarlo noi per inserire un cuneo su una situazione delicata come quella in Medio Oriente, dovremmo ragionarci bene sopra prima di andare avanti”.

Secondo l’opinione espressa su queste colonne dal generale Carlo Jean, semplifico, a Roma si sta cercando il consenso interno tralasciando i contraccolpi sulla politica estera italiana che certe mosse potrebbero avere: è d’accordo? “Sì. In effetti non vorrei che in nome di grandi proclami si semplificassero e tagliassero con l’accetta, rappresentandole come cose molto semplici, quelle che sono in realtà questioni molto complesse, articolate e delicate su cui occorre una riflessione di carattere strategico”.

Ma si stanno usando questi dossier di politica estera per acquisire consenso? “Diciamo così, è facile far leva su certi sentimenti diffusi, è chiaro che l’opinione pubblica si sia commossa davanti al caso Regni, alle sofferenze della famiglia, è stata una vicenda drammatica. Tuttavia giudico imprudente il tentativo di far gioco su questi sentimenti per ottenere consenso senza comprendere e valutare le ricadute che prendere certe posizioni può portarsi dietro. La politica estera nazionale non si può fare sulla base del sentimentalismo e dei principi ideologici”.

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