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Elogio della scuola italiana (digitale)

scuola digitale

Il problema principale del nostro Paese è l’incapacità della scuola di adeguarsi ai mondi disegnati dal digitale? Perché non sa rigenerarsi nei nuovi percorsi formativi richiesti dalla domanda delle imprese? Troppa Divina Commedia, troppo pochi algoritmi? Troppa cattedra e troppa poca condivisione? Fino a qualche settimana fa avrei risposto senza tentennamenti: sì. Sto cambiando idea. Per due motivi: il primo si chiama Luciano Floridi, docente di Etica dell’informazione a Oxford; il secondo Daniele Pauletto (primus inter pares fra tanti prof italiani di scuola superiore) dall’Ipsia di Castelfranco Veneto.

Il primo. La premessa. Lo “scultore delle parole” rivolto agli studenti Jedi di Nuvolaverde, durante un incontro al Sole 24 Ore dice in sostanza: “Non facciamoci ingannare dalle onde corte della tecnologia, lavoriamo sulle basi: matematica, lingua, scienza, la storia dell’arte… sulle fondamenta… poi lasciamo che la scuola (questo lo può fare) insegni il coraggio e la responsabilità per non inseguire, ma gestire il cambiamento… così mettiamo i ragazzi nelle condizioni di lavorare al design (parola-chiave) del proprio futuro…”. Insomma la scuola non deve mettere nelle condizioni di, ma creare le premesse per. È stato sempre così e non c’è ragione – neanche una rivoluzione digitale – perché non debba continuare a esserlo, “la scuola questo deve fare, del resto si occupino gli altri”, non è poco, ma neanche così tanto se si pensa alla potenza della cultura italiana. Quindi abbiamo delle buone basi. Cambio idea: la nostra scuola è impostata come si deve. E così mettiamo nella giusta casellina la (ormai a questo punto presunta) anomalia degli italiani cresciuti in Italia che lavano i peccati del mondo dell’impresa globale degli altri Paesi.

Il secondo. La rivelazione. Nel 2013 Daniele Pauletto (immaginiamo tanti Daniele Pauletto nella scuola italiana e lo citiamo a simbolo anche di altri) coinvolge alcuni ragazzi di quinta e di altre classi del ramo elettronico, di produzioni industriali e di manutenzione in un vero e proprio MakerLab: “Partiamo dal laboratorio dei droni – spiega Pauletto – e ci trasformiamo progressivamente a laboratorio del fare, trasversale alle discipline scolastiche: elettronica, meccanica, telecomunicazioni, fisica, scienze, tecnologie informatiche, laboratori tecnologici; aggiungiamo digital social e audio-video per documentare le esperienze”. Partendo dai droni – in pochi anni – il prof e i ragazzi lanciano molte applicazioni: per la consegna di farmaci salvavita a domicilio a persone in difficoltà (disabili e anziani); per accompagnare i turisti nelle visite al Museo del Giorgione; droni-colf che fanno pulizie, lavano e asciugano i pavimenti; sommelier che versano a goccia la preziosa Grappa di Cartizze; giardinieri che valutano lo stato di salute di piante arboree centenarie; rescue drone per soccorrere persone coinvolte in un attacco terroristico che controlla le vie di fuga e fa da apripista per mettere in salvo le persone; droni che vigilano sulla violazione delle regole per la tutela ambientale.

Impressionante, vero? Non tanto e non solo per le applicazioni, quanto per il fatto che questi ragazzi sono stati incentivati a entrare nel merito delle soluzioni, e quindi, delle problematiche prese in considerazione. Non bastasse, hanno utilizzato i droni telecamere volanti per raccontare le loro storie: “Un sistema di comunicazione integrato, composto da immagini, video, interviste con smartphone e minidroni, che chiamiamo Beauty hunter drone: così abbiamo prodotto cinquanta servizi giornalistici postando su YouTube e vari social dei videoclip inediti e originali. Alcuni dei quali in continua, inarrestabile ascesa di follower”.

Per non farsi mancare nulla, oltre che continuare a studiare e creare le fondamenta, i ragazzi si sono cimentati sull’analisi del mondo bitcoin e relative applicazioni e – en passant – studiato soluzioni di intelligenza artificiale nella traduzione dei testi da altre lingue. Per farlo hanno scomodato niente meno che Shakespeare: “L’azione dei translator più diffusi – spiega Pauletto – ci consegna una traduzione letterale sequenziale parola per parola. Alla traduzione corretta mancano quindi sfumature e idiomi. Per risolvere il problema abbiamo cercato sistemi più evoluti che impiegassero l’intelligenza artificiale: sostanzialmente si utilizza un algoritmo che introduce non solo vocaboli, verbi, coniugazioni, ma coglie dalla letteratura anche le forme gergali o i modi di dire. Il risultato? Un brano della Bisbetica domata di Shakespeare tradotto dalla lingua originale ha visto ridurre in modo considerevole gli errori rispetto a quello fatto con i sistemi più diffusi, almeno del 70%”. Adesso i ragazzi si stanno allargando e stanno tentando di scrivere un libro con lo stile di uno scrittore famoso come Hemingway. Ma ci sta. Coraggio come dice Floridi.

Cambio idea, a questo punto. Pauletto e i suoi ragazzi sono dei geni? Solo Pauletto? Solo i ragazzi? È l’aria di Castelfranco Veneto? Partire dalle fondamenta, instillare responsabilità, incoraggiare intraprendenza, liberare creatività, visione. Infine, puntare all’innovazione. Forse è la dimostrazione pratica di quello che la scuola italiana può fare se è nelle umili mani giuste. Floridi dixit, Pauletto facit…?


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