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Fenomenologia dei gilet gialli e della prima (forse) crisi climatica d’Europa

gilet gialli

Da un capo all’altro dell’Atlantico, è un grido all’unisono, che va da Trump a Salvini, dal sogno proibito di Pamela Anderson all’amaca caraibica di Di Battista.

Insomma, le piazze delle capitali che rigurgitano folle vocianti, più o meno aggressive, segnano il riscatto dei petits-moyens (Isabelle Coutant, sociologa, Le Monde), classi popolari di operai, impiegati, artigiani, pensionati, che si sono federate con piccole classi medie, di liberi professionisti, piccoli imprenditori, persone anagraficamente mature, politicamente moderate, in un passato recente elettori di Macron, ma irrimediabilmente offesi dal sentimento di una rispettabilità tradita, forse anche definitivamente perduta, a causa delle prospettive di vita cannibalizzate da una fiscalità tra le più voraci d’Europa.

L’internazionale populista si è materializzata, ha preso corpo in uno dei feticci più banali e prosaici di questa nostra Europa, oggi rinviata a processo per direttissima. Il gilet giallo. Il giubbotto catarifrangente, o gilet salvavita (ma forse non salva Europa?), che tutti, in Francia, in Italia, ovunque nel continente, per effetto del regolamento, per l’appunto europeo, siamo tenuti ad avere in macchina. E sì che ogni tanto lo dimentichiamo, la protesta è esplosa proprio per i rincari sul carburante preventivati dal governo di Macron: 7,6 centesimi sul diesel e 3,9 centesimi sulla benzina. Tanto è bastato. La rivolta fiscale oggi è un mostro policefalo, che ha tante teste quante le rivendicazioni messe sul piatto della trattativa, nonché i diversi gradi di durezza nel confronto con il governo.

Certo, la fenomenologia della protesta è così icastica e incisiva, per così dire efficace nella familiarità del suo simbolo, che invita chi osserva all’immedesimazione. Al netto dell’intervento rovinoso dei Casseurs, sette francesi su dieci infatti sostengono le ragioni di chi protesta. Quanto alla politica, è l’assalto alla diligenza, o meglio, all’hashtag #GiletJeunes, da un capo all’altro degli schieramenti.

A casa nostra, si va da Casa Pound (“Solidarietà contro la barbarie europeista di Macron”), a Potere al Popolo ( “Obiettivo comune. Mettere fine al governo dei ricchi”), in Francia, da Marine Le Pen (“Il governo ha chiuso gli occhi sull’incubo di milioni di francesi”), a Jean- Luc Mélenchon (“I Gilet Jaunes aprono l’era del popolo”).

Nel caleidoscopio delle icone prodotte ad uso e consumo dei social media, è certamente emblematica la fotografia che l’8 dicembre ritrae a Bruxelles Steve Bannon, Marine Le Pen e Tom Van Grieken, mente del Vlaams Belang, partito belga di destra sociale e identitaria che milita per l’indipendenza delle Fiandre. A poche ore di Tgv dalle incendiarie proteste parigine, quasi novello Nerone, Bannon afferma: “Parigi brucia. Londra è in crisi e il Patto di Marrakesh è morto prima ancora di nascere. I gilet gialli sono esattamente gli stessi che hanno eletto Trump nel 2016 e gli stessi che hanno votato per la Brexit”. Ma il commento più livido e inquietante è nel telegramma da 140 caratteri di Nouriel Roubini, che cinguetta: “L’agenda di una Le Pen di destra, base dell’agenda elettorale dei gilet gialli. Distruggere l’Eurozona, l’Ue, la Nato e lasciare che la Russia prenda il controllo della Francia. Rendere la Russia, non la Francia, di nuovo grande”. Cosa aspettarsi di meglio? In fondo il doctor Doom, è tra quelli che nel 2006 scriveva insopportabili articoli che anticipavano la crisi del 2008…

Insomma, il giallo fluorescente della rivolta appare particolarmente drammatico per la sua coincidenza con Cop24 nella città polacca di Katowice, a cui partecipano i circa 180 paesi che hanno firmato il trattato sul cambiamento climatico a Parigi nel 2015. Solo pochi giorni fa Trump non ha perso l’occasione di canzonare Macron, strizzando l’occhio ai manifestanti per ricordare il suo “no” agli accordi di Parigi del 2015: “Fatalmente sbagliato perché aumenta il costo dell’energia per i Paesi responsabili, coprendo alcuni dei Paesi che inquinano di più al mondo”. Viene da pensare: e se davvero la rivolta dei gilet gialli, come suggerisce l’economista Olivier Damette (Franceinfo), fosse la prima vera crisi climatica di Francia e quindi anche d’Europa? Un avant-goût delle drammatiche tensioni sociali a cui dovremo assistere nei prossimi anni per lo sfruttamento, non più sostenibile, delle risorse naturali? Certo è che intanto proprio il governo di Varsavia ha annunciato l’apertura di una nuova miniera di carbone nella regione della Slesia, mentre i rivoltosi francesi difendono à tout prix il diritto di consumare gasolio economico nelle loro auto. Quanto agli italiani, più o meno gialloverdi che siano, l’idea di passare dalla Panda 1,2 alla Panda Mille, al momento scatena soprattutto l’ilarità più incontenibile sul web. Forse solo perché la Panda Mille non è più in commercio. Speriamo…

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