Facinorosi, violenti, criminali. I devastatori di Parigi non meritano considerazioni e giustificazioni. Tuttavia non ci si può fermare alla constatazione dell’inaccettabile comportamento di un migliaio di scalmanati in assetto di guerra per liquidare un movimento di popolo che si sta estendendo fino a creare problemi seri non solo alle autorità francesi, ma soprattutto ai cittadini.
Il fatto che il Paese sia in fiamme da ben tre settimane è l’effetto, prevedibile, di un insostenibile disagio sociale che ha preso a pretesto l’aumento dei carburanti (giustificato come misura necessaria per la “transizione ecologica”) per esplodere in tutta la sua pericolosa carica eversiva. Un disagio che viene dal lontano e che sarebbe stupido ed ingeneroso attribuire soltanto alle politiche di Emmanuel Macron: in quindici- sedici mesi di presidenza non si possono fare danni tanto gravi da provocare una sommossa dalle dimensioni mai mai viste almeno da cinquant’anni in qua.
Il nuovo presidente ha ereditato una situazione già esplosiva ben prima della fine del mandato di François Hollande ed ha avuto la “colpa” non non metterci riparo in alcun modo. Anzi, ha contributo ad aggravarla con insensati aumenti di tasse che si sono tradotti nella dilatazione della disoccupazione (aziende chiuse o allo stremo) caduta del Pil, malessere delle categorie sociali, smantellamento del welfare e sostanziale impoverimento del ceto medio ed agricolo in particolare, con la caduta del potere d’acquisto che ha gettato nello sconforto le famiglie francesi.
I gilet gialli sono stati “infiltrati” da elementi criminali? Potrebbe essere, a sentire il ministro dell’Interno Castaner. Ma è altrettanto vero che coloro che sono stati riconosciuti ed indicati come i “portavoce” del movimento nato dal nulla, e sostanzialmente propagatosi attraverso il web, invitati a colloquio dal primo ministro Edouard Philippe non hanno ritenuto di presentarsi, immaginando che la “mano tesa” da Macron nei giorni scorsi sarebbe stata ritirata senza ottenere un bel nulla.
Se è vero che non c’è nulla di “rivoluzionario” negli attentatori alle libertà dei cittadini e nei distruttori di beni pubblici e privati, non è da sottacere la circostanza che invece la protesta pacifica dei gilet gialli sta assumendo fattezze inimmaginabili rispetto a quando si è manifestata. Ed essa sì ha una valenza “rivoluzionaria”, in un certo modo, perché riconducibile all’organizzazione di una sotterranea e ben covata rivolta da parte di coloro che ritenevano dopo la disfatta dei partiti tradizionali di essere entrati in un’altra èra della politica.
Così evidentemente non è stato. In Francia, tra società e politica, da tempo si è creato uno iato dovuto all’assenza di corpi intermedi in grado di mediare. Gli stessi sindacati vengono considerati come parti delle élites e, dunque, non più credibili. Ci si affida pertanto a forme discutibili di “democrazia diretta” piuttosto abborracciate, ancorché comprensibili nella loro immediata istintualità, che sono destinate ad esaurirsi se non trovano sbocchi politici decenti.
E qui sorge il problema: chi può legittimamente interpretare il movimento dei gilet gialli ed il più complessivo disagio francese in un momento di grandissima confusione alla quale ha contribuito anche Macron pensandosi come il “demiurgo” bonapartista volto a calare sul suo Paese strategie internazionali e molto poco propenso a mettersi in sintonia con i suoi connazionali?
Davanti a questo interrogativo stanno le macerie fumanti sugli Champs Elysées ed intorno all’Arco di Trionfo. Decine di feriti innocenti non sanno a chi devono le loro disgrazie. La Francia ha cominciato soltanto adesso ad interrogarsi sul suo destino, mentre in Europa il temuto “contagio” diventa sempre più un’opzione credibile.