L’attuale esecutivo si accredita come governo del cambiamento, ma non pochi indicatori mostrano modelli, metodi e contenuti riconducibili ad esperienze del passato. Sul piano della rappresentanza elettorale, la componente maggioritaria è stata inficiata dalla scelta della Lega di formare il governo con un partito esterno alla coalizione con cui si è presentata agli elettori e ha eletto candidati nei collegi uninominali; di sostenere per l’intera legislatura, salvo imprevisti, un esecutivo non appoggiato dagli alleati di centrodestra; di aderire a un contratto di governo avente rilevanti contenuti in conflitto con il programma di coalizione, senza limitarsi a concordare impegni compatibili con quelli assunti in campagna elettorale. Tale scelta, benché sostenuta dal consenso popolare e politicamente legittimata dall’assenza di una maggioranza parlamentare alternativa, richiama la grande tradizione del trasformismo politico, che attraversa la storia del Paese, non il nuovo che avanza.
Nel contempo, la rappresentanza elettorale del Paese divisa tra nord e sud, tra aree sviluppate e disagiate, tra disoccupazione e lavoro, tra assistenza e impresa, riproduce nel terzo millennio schemi di formazione del consenso che replicano riferimenti politici del passato, sia per i territori meridionali che per quelli settentrionali.
Sul piano del metodo, l’esecutivo si è costituito sulla base di un contratto di governo costituito essenzialmente dall’elencazione di proposte dei due partiti che lo sostengono, con distonie tra le varie istanze e una scarsa sintesi politica delle diversità. Si è quindi rinunciato a un programma coerente, optando per una lista di impegni eterogenea e talvolta contraddittoria; e, in assenza di una strategia di fondo, si è focalizzata l’attenzione su istanze particolari dei diversi gruppi elettorali, siano essi i pensionati o i disoccupati, le partite iva o i lavoratori precari, per rinsaldare il vincolo di mandato e riproporlo per le successive elezioni. Tale modello, le cui origini risalgono nel tempo, è stato sapientemente elaborato nella prima Repubblica e non rappresenta una novità.
Dal punto di vista istituzionale, l’esecutivo si è formato con una attenta suddivisione degli incarichi ministeriali, cui corrisponde una conforme ripartizione delle politiche di settore. Il ruolo del presidente del Consiglio, per quanto appare, non è quello di dirigere la politica generale del governo ma quello di mediare tra i partiti di maggioranza e di rappresentarli nelle sedi internazionali. Non si rinviene una visione strategica che guidi i vari ministeri (di natura riformista, progressista, liberale, conservatrice, rivoluzionaria o altro), e risultano prevalenti logiche di parte, fino al punto in cui non diventino inaccettabili per la controparte di maggioranza. Qualcosa del genere si è già visto ai tempi delle coalizioni pluripartitiche e consociative, tenute insieme dalla sommatoria degli interessi e dalla spartizione dei ministeri e dei sottosegretariati, nei casi in cui c’era un presidente del Consiglio debole, chiamato a svolgere il ruolo di facilitatore della dinamica politica.
Sul versante dell’azione di governo, la prassi invalsa è quella di una costante trattativa tra gli alleati, nella quale raramente si elaborano misure condivise e sovente si cerca di difendere le proprie istanze e contrastare quelle dell’alleato, in quanto contrarie ai valori e interessi di riferimento, in un incessante e defatigante scambio politico. Così il reddito di cittadinanza, nella sua valenza assistenzialistica e burocratica, costituisce un carico pesante da portare avanti per una Lega concentrata prioritariamente sullo sviluppo imprenditoriale del Paese; una decisa azione di contrasto all’immigrazione irregolare lede la sensibilità di componenti radicali e umanitarie dei Cinque stelle; l’opposizione alle grandi opere entra in conflitto con l’attenzione della Lega verso lo spirito di impresa e la crescita economica; l’abbassamento delle tasse risulta indigesto per i sostenitori di una espansione dello Stato sociale; le concezioni movimentiste e giustizialiste dei Cinque Stelle sono poco compatibili con la consapevolezza istituzionale e garantista della Lega.
L’esito di questi conflitti produce un’azione di governo in continua fibrillazione, con un altalenarsi di dichiarazioni e smentite, un susseguirsi di ipotesi normative e finanziarie in rapida evoluzione, che trasmettono incertezza e insicurezza al Paese, causando perniciose ricadute sulla fiducia delle imprese, degli investitori e dei consumatori. Un’azione di governo sostanzialmente disarticolata, nella quale le diverse misure esulano da un disegno organico e fruiscono di stanziamenti inevitabilmente ridotti perché mal ripartiti, riducendo il loro potenziale utile. Si assiste così alla riedizione di problemi tipici della partitocrazia della prima Repubblica, quando il succedersi di governi condizionati dalla disomogeneità di partiti e correnti interne, ostacolava politiche socioeconomiche affidabili, coerenti e proiettate nel tempo.
I principali contenuti del contratto di governo, infine, non costituiscono un cambiamento bensì una riproposizione di concezioni del passato. Certamente non è nuova l’idea di contrastare il disagio socioeconomico attraverso l’assistenzialismo: la vicenda dell’Italia democratica è segnata dall’uso e dall’abuso di tale strumento, in nome di una interpretazione estensiva dello Stato sociale e di una acquisizione del consenso basata sullo scambio, a livello di singoli e di gruppi; e sono risalenti negli anni le teorie economiche che hanno legittimato tali pratiche. Altrettanto datate sono le idee a sostegno di un rilancio dell’economia attraverso la spesa pubblica in deficit o un forte abbassamento delle tasse: idee che in Italia hanno supportato l’intervento dello Stato nell’economia ma che, nonostante i proclami, non hanno mai portato a una rilevante diminuzione del carico fiscale.
Il vero cambiamento, finora, salvo l’inversione di rotta sull’immigrazione, ha interessato essenzialmente l’immagine politica, sostanziandosi nella fiera rivendicazione di un populismo italiano e nella sua orgogliosa contrapposizione all’Europa dei “burocrati”, con tutte le implicazioni del caso.
Sul primo versante, appare corretto ipotizzare che la salita al potere di forze dichiaratamente populiste abbia offerto una risposta democratica alle istanze di gruppi sociali in sofferenza, che altrimenti avrebbero potuto cercare deteriori forme di espressione e protesta; e abbia iniziato a disarticolare un sistema di potere stratificatosi nel tempo, non privo di inefficienze, corporativismi, clientelismi. Nel contempo, tuttavia, va osservato che il populismo all’italiana, nella sua ansia di rinnovamento del sistema, sconfina talvolta nella demagogia, assumendo posizioni opinabili per rispondere alla rabbia sociale, trascurando valutazioni competenti e collaborazioni istituzionali, piegando il dato di realtà alle esigenze politiche.
Sul secondo versante, si può ritenere che il conflitto con l’Europa, fortemente alimentato, possa anche aver senso in una logica populista, ma solo se funzionale a un rilancio della presenza italiana nel continente, a una migliore politica migratoria comune, a un più efficace riparto e utilizzo dei fondi europei, a una maggior attenzione ai profili sociali dell’azione comunitaria. Finora non è andata così e il conflitto è rimasto sterile, scarsamente ponderato nella tattica e nella strategia, disattento ai vincoli di bilancio e di finanza dello Stato, ancorato a una polemica controproducente, strumentale al consenso politico.