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Huawei, ecco la controffensiva del Dragone contro Washington

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Nel suo libro “Cina” Henry Kissinger descrive la predilezione dei cinesi per la tortuosità piuttosto che lo scontro frontale. Come nel weiki, un gioco da tavola con 180 pezzi per parte, anche in politica estera il governo cinese cerca sempre di imboccare la strada lunga per raggiungere con discrezione l’obiettivo. Nelle dichiarazioni del partito e nei comunicati delle cancellerie all’estero alla retorica del conflitto o della “competizione strategica” ampiamente citata nella strategia per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti di Donald Trump i cinesi preferiscono il mantra della cooperazione, dell’ordine sociale, del compromesso che porti a un risultato “win-win” per tutti. Per questo non possono non sorprendere le parole scelte dal presidente Xi Jinping per celebrare i quarant’anni dallo storico iter di riforme economiche avviate da Deng Xiaopeng. “Nessuno è nella posizione di dettare alla Cina cosa deve o non deve essere fatto” ha chiosato il presidente a vita di fronte alla platea della Grande Sala del Popolo.  Il duro monito in direzione Washington è inedito nella forma e nei toni, e per di più accompagnato da un editoriale al vetriolo del Global Times, il tabloid internazionale del People’s Daily, giornale ufficiale del Partito comunista, che spiega senza giri di parole la ragione del risentimento cinese nei confronti degli americani. L’arresto in Canada della direttrice finanziaria di Huawei Meng Wanzhou e la richiesta agli alleati di tener fuori l’azienda hi-tech di Shenzen dalla rete del 5G – si legge sulle colonne del megafono di partito – “è un’interferenza brutale e un attacco contro il sistema di innovazione tecnologica e scientifica”. “Paralizzare Huawei – continua la reprimenda del tabloid ­­– significa paralizzare l’abilità di ogni Paese di esercitare la sua indipendenza e sovranità sulla base di opzioni multiple” e questo episodio “non si trasformerà mai in un glorioso capitolo della storia degli Stati Uniti e dell’Occidente”.

All’assertività dell’amministrazione Trump, appesa a una fragile tregua commerciale con Pechino e pronta a reinserire i dazi, la Città Proibita risponde per la prima volta a tono, con un discorso da superpotenza che si fa portavoce di un diffuso malcontento fra la popolazione cinese seguito all’arresto di “lady Huawei”, accusata di aver messo in piedi una truffa per aggirare le sanzioni economiche all’Iran. “Arrestare così, senza nessuna giustificazione, la figlia del titolare di una società cinese competitor di aziende americane dimostra che gli Stati Uniti credono di poter far valere le loro leggi interne come leggi internazionali” aveva spiegato a Formiche.net il professore dell’Università degli studi internazionali di Pechino Yu Xuefeng. La controffensiva cinese è seguita nella giornata con una conferenza stampa convocata presso il quartier generale di Huawei a Shenzen dal presidente Ken Hu. “Interdire un’azienda in particolare non può risolvere i problemi di sicurezza informatica – ha spiegato ai cronisti il numero uno del colosso hi-tech – Non ci sono prove che Huawei stia minacciando la sicurezza nazionale di qualsiasi Paese”.

Rassicurazioni che certo non basteranno a far desistere il dipartimento di Stato Usa dall’azione di advocacy verso gli alleati europei, invitati ad escludere dalle infrastrutture critiche nazionali tanto Huawei quanto l’altro gigante del settore cinese, Zte. Lo scenario da evitare ad ogni costo, ripetono senza sosta i diplomatici americani, è l’ingresso nella rete 5G di aziende che devono rispondere alle agenzie di intelligence del governo cinese. Un memo segreto risalente a inizio 2018 scritto da un ufficiale del National Security Council e riportato dal Financial Times dà un’idea della posta in gioco. La corsa al 5G è definita “un cambiamento non dissimile dall’invenzione della stampa di Gutenberg”, “la stiamo perdendo”. “Chiunque otterrà la quota di maggioranza nel mercato del 5G avrà un clamoroso vantaggio – recita il memo – comanderà i vertici del dominio informatico”.

Nel frattempo, quasi a voler dimostrare la resilienza contro l’operazione guidata da Washington, Huawei ha diramato con un comunicato piuttosto inusuale i dati delle vendite per il 2018. Nel secondo e nel terzo trimestre l’azienda di Shenzen ha superato le vendite di Apple conquistando il secondo posto alle spalle della coreana Samsung, ed entro il 31 dicembre, assieme alla controllata Honor, avrà venduto un totale stimato di 200 milioni di smartphone. Numeri da record, che però nel 2019 dovranno fare i conti con il contraccolpo geopolitico dovuto agli Stati che, su pressione degli americani, rivedranno la presenza di Huawei nel mercato della telefonia e del 5G. In Europa la lista si sta allargando. La francese Orange SA ha rinunciato ai sistemi Huawei per la costruzione della rete 5G, e sulla stessa scia si è immessa l’azienda britannica BT Group e la tedesca Deutsche Telekom. Anche dall’Est Europa giungono adesioni alla coalizione a guida Usa. Il direttore dell’ Agenzia nazionale per la sicurezza informativa e cyber della Repubblica Ceca Dusan Navratil ha invitato i provider del 5G a tener fuori Huawei e Zte dalla banda larga: introdurre le aziende cinesi “nei settori chiave dello Stato può presentare una minaccia”. Tutto tace per ora in Italia. A dispetto dei ripetuti moniti giunti al governo, Huawei continua a lavorare ai test per la rete 5G a Milano con Vodafone e a Matera con Tim e Fastweb.

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