Skip to main content

Huawei, perché la numero 2 del colosso cinese è stata arrestata

5G, Huawei

Un nuovo caso aggiunge tensione tra Pechino e Washington e rischia di complicare ulteriormente i colloqui commerciali tra le due potenze, reduci da un bilaterale al G20 di Buenos Aires. Le autorità canadesi hanno arrestato a Vancouver, su richiesta Usa, il direttore finanziario del colosso cinese Huawei Technologies, Meng Wanzhou, che ora rischia l’estradizione nei vicini Stati Uniti, dove è in corso un’indagine per accertare se la compagnia abbia violato le sanzioni all’Iran.

LE PROTESTE DI PECHINO

In un comunicato, l’ambasciata cinese ad Ottawa ha chiesto il rilascio della cittadina cinese che “non ha violato alcuna legge”. I diplomatici di Pechino hanno chiesto al Canada di “correggere immediatamente questo comportamento illecito”. “La parte cinese si oppone fermamente e protesta con forza contro questo tipo di azioni che hanno seriamente danneggiato i diritti umani della vittima”, hanno aggiunto dall’ambasciata.

NON UNA SEMPLICE MANAGER

A complicare le cose c’è il fatto che Meng Wanzhou non è una “semplice” manager, ma oltre ad essere Cfo e vice presidente del board, è anche la figlia del fondatore del gruppo, Ren Zhengfei, ex ingegnere dell’esercito di Liberazione Popolare cinese. La dirigente (che ha tenuto il cognome della madre) aveva iniziato a lavorare come segretaria per Huawei nel 1993, molto prima che il gruppo diventasse il gigante delle telecomunicazioni che è oggi. La donna, 46 anni, aveva abbandonato gli studi alle superiori, ed era rimasta nell’ombra a lungo: aveva iniziato ad acquisire visibilità solo nel 2011, fino a diventare uno dei volti più noti del gigante tecnologico, al centro di diffuse preoccupazioni di sicurezza sul piano internazionale.

LE OMBRE SULLA COMPAGNIA

Da tempo in Occidente si discute del ruolo di colossi come Huawei, alfiere della tecnologia cinese nel mondo considerato da molti servizi servizi di intelligence – come raccontato da Formiche.net – troppo contiguo al governo del suo Paese per essere ritenuto affidabile. Questi timori hanno spinto l’alleanza di Paesi anglofoni Five Eyes a bandire, quasi in blocco, la compagnia da cinese da ogni coinvolgimento nella parte “core” di una tecnologia strategica come il 5G (una presa di posizione, spiegava su queste colonne il professor Carlo Alberto Carnevale-Maffè, dettata dal fatto che le autorità Usa hanno chiesto alle aziende di Pechino architetture verificabili, così da poter essere sottoposte allo scrutinio delle istituzioni deputate alla sicurezza, e ha bandito chi non assicurava questi requisiti). E ora, dopo la strada intrapresa da Washington, anche alleati europei riflettono se compiere la medesima scelta. Poche settimane fa fonti citate dal Wall Street Journal hanno raccontato che funzionari del governo americano avrebbero incontrato controparti e dirigenti delle aziende di telco di Paesi amici e alleati come Giappone (che secondo il quotidiano Nikkei starebbe già pensando all’esclusione dagli appalti pubblici di grandi aziende tecnologiche cinesi), Germania e anche Italia per spiegare loro quanto alto sia il pericolo dal loro punto di vista, soprattutto in nazioni, come le tre citate, che ospitano basi militari americane sul loro territorio che – al netto dell’utilizzo della rete satellitare e telefonica del dipartimento della Difesa per comunicazioni altamente sensibili – vedono transitare gran parte del loro traffico su comuni reti commerciali.

LA POSIZIONE ITALIANA

A settembre, l’Italia ha ospitato alla Camera, alla presenza del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio e altri esponenti del M5S, un importante meeting di Huawei, anche se le agenzie di intelligence italiane da tempo stanno alzando la guardia sulla ditta cinese (come spiegato su queste colonne dall’ex vicepresidente del Copasir, Giuseppe Esposito).

Oggi invece, pur senza “commentare l’indagine”, il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini (altro azionista del governo assieme al M5S), intervistato a Radio anch’io (Rai Radio 1), ha spiegato invece la sua visione politico-economica di Pechino e degli assetti internazionali. La Cina, ha detto, è “una realtà, sicuramente non una democrazia, che fa concorrenza sleale con i suoi prodotti partendo da un piano di vantaggio nei confronti delle imprese italiane e di tutto il mondo” e “sta combattendo ad armi impari” con “strumenti che Italia, Stati Uniti e Unione Europea non possono usare”. Bisogna, per questo, “cambiare le regole commercio” e “ridiscutere” la globalizzazione.


×

Iscriviti alla newsletter