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Il riformismo che serve all’industria

manifattura, industria

Quando si tratta di indicare una strada da percorrere verso la ripresa, Paolo Pirani spesso usa un riferimento storico. Il leader della Uiltec è sempre più convinto che il nostro Paese, che esce da una crisi profonda, debba, per esempio, ispirarsi a un’idea alta di ripresa energetica. E indica la scelta compiuta da Franklin Delano Roosevelt, attraverso il “New Deal”.

Il Presidente degli Stati Uniti nel 1933, tra i tanti interventi attuati dal “nuovo corso” della sua presidenza, determinò il “Tennessee Valley Act”, un atto che prevedeva, da parte del governo statunitense, la costruzione di dighe sul Tennessee per la produzione di energia idroelettrica che avrebbe dovuto determinare la creazione di aziende poi scomparse dopo la crisi economica del 1929. Un importante riferimento per aiutare la crescita.

Chi scrive, da tempo usa un esempio della politica economica degli Stati Uniti molto più recente, ovvero la scelta del presidente americano Ronald Reagan, all’indomani della sua elezione, avvenuta nel novembre del 1981, di convocare incontri con i più importanti scienziati ed economisti del Paese per individuare le direttrici strategiche su cui concentrare l’azione del governo al fine di riconquistare la leadership tecnologica nel mondo. Infatti, gli Usa dagli anni Settanta hanno sofferto una pesante caduta della produttività del lavoro e dei fattori della produzione che ha comportato il passaggio da nazione esportatrice a importatrice di macchine che producono macchine. Un Paese debole, quindi, minacciato da un lato dalla potenza militare dell’Unione Sovietica e, dall’altro, dalla crescita industriale del Giappone. A metà degli anni Novanta gli Stati Uniti hanno ritrovato la supremazia militare e quella industriale.

L’Italia non è l’America, ma al di là dell’Oceano ci sono esperienze, come le due citate, a cui ci si potrebbe ispirare. Mai come ora è evidente la necessità di indivi247 duare la politica industriale per far crescere l’economia. In questo senso si potrebbero convocare degli Stati Generali su innovazione e tecnologia per scegliere su quali settori strategici concentrare le risorse al fine di determinare una crescita adeguata. È evidente che le risorse non sono adeguate. E permangono tuttora molte perplessità relative sull’adeguatezza degli stimoli alla domanda interna privata e di quelli rivolti ad accrescere la domanda aggregata. Insomma, rimane la fatica a crescere. L’unica possibilità, oltre a quella di favorire investimenti provenienti dall’estero, rimane quella di avviare una campagna di investimenti pubblici per diverse decine di miliardi di euro. Dove indirizzarli? L’Italia abbisogna di investimenti infrastrutturali nella rete, nell’energia, in un piano straordinario per l’edilizia popolare, in un piano per la sicurezza sismica e idrogeologica e di tanto altro ancora.

È chiaro che bisognerà tener conto del vincolo che definisce il rapporto tra deficit pubblico e Pil, una realtà che non permette l’approvvigionamento di tanto denaro fresco da spendere. È indispensabile capire dove si possono trovare i soldi per investire nella giusta misura. Il Paese ha un patrimonio pubblico stimato in una misura di poco superiore ai 1.500 miliardi di euro e circa la metà sono rappresentati da partecipazioni, crediti e anticipazioni attive, immobili e concessioni immediatamente fruibili. Qualche decina di miliardi di euro di questo patrimonio potrebbero confluire in un fondo garantito della Cassa Depositi e Prestiti con il fine di liquidare entro un lustro tutti gli asset in portafoglio. Quote di questo fondo, remunerate come i titoli di Stato di pari scadenza, potrebbero essere sottoscritte dai grandi investitori istituzionali come assicurazioni, fondi pensione e casse previdenziali, la stessa Cassa Depositi e Prestiti. L’operazione di cartolarizzazione in questione, sia per entità sia modalità, non porrebbe problemi agli operatori coinvolti e non violerebbe accordi e impegni presi in ambito comunitario.

Questa cosiddetta “one-shot” permetterebbe di sostenere in gran parte quella mole di investimenti che tutti evocano, ma di cui non si riesce a individuare l’idonea copertura. Una proposta per 248 la crescita già fatta circolare qualche anno fa, ma elusa dai più. Il governo, invece, ha scelto di aggiornare la nota di variazione al Documento di Economia e Finanza elevando la percentuale del deficit al 2,4% in tre anni, rimodulandola successivamente intorno al 2%. La legge di Bilancio ha inglobato questa determinazione. Il premier Giuseppe Conte ha assicurato che nel triennio di extradeficit aumenteranno gli investimenti pubblici di ben 15 miliardi di euro rispetto ai 38 miliardi già stanziati. È probabile il ricorso a ulteriore debito per finanziare i suddetti investimenti. È difficile prevedere, come auspica l’esecutivo, se la manovra aumenterà in modo efficace la crescita e se in seguito si riuscirà efficacemente a ridurre il rapporto tra debito e Pil. Di certo, la manovra in questione si preoccupa di rispondere alle esigenze di consenso contingente, più che rispondere alle esigenze del futuro prossimo. Il Paese ha davvero scelto la via dell’indebitamento. Il rischio è che produca a medio termine costi più alti di interessi sul debito a carico di Stato, imprese e famiglie. È proprio da qui che nasce il problema del peso di quegli interessi su crescita, investimenti e lavoro. Anche per questo motivo è indispensabile tenere sotto controllo i conti pubblici. Di sicuro, l’Italia cresce se gli investimenti pubblici e privati si indirizzeranno verso l’industria. In un modo o nell’altro. È l’unica direzione possibile nel contesto non solo nazionale, ma anche europeo. È soprattutto un modo di agire. Il destino dell’agire riformista rimane sempre lo stesso: insistere, non demordere, mantenere la rotta verso l’approdo. Prima, o poi, si entra in porto. E ci si prepara per ripartire!


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