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L’Italia, la Francia e le radici profonde della crisi europea

Si può salvare la Francia e punire l’Italia? Questo è il dilemma che la Commissione europea dovrà sciogliere ancor prima di entrare nel merito delle due diverse situazioni. Il problema di fondo è sapere se le regole valgono per tutti i Paesi membri, o se, anche in Europa, vale quel che predicava il vecchio Giolitti. Le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici. Considerazioni che già si possono orecchiare nei dintorni di Parigi o di Bruxelles, dove si tenta di spaccare in quattro il capello: buttandola sulla procedura. Il maggior deficit francese emergerà solo in seguito, mentre quello italiano è conclamato. Quindi nel primo caso la Commissione non può procedere, nel secondo sì. Che sarà anche vero, ma del tutto irrilevante rispetto alla sostanza ed alla natura dei problemi.

Una volta superato questo passaggio, nel senso dell’universalità della norma, si può passare ad un secondo step. E cercare di capire analogie e differenze. Che non servono tanto per giustificare o meno i relativi comportamenti politici, quanto per andare alla radice più profonda della crisi europea. Se il secondo ed il terzo Paese dell’Unione, non riescono a tenere il passo, sebbene siano stati tra i padri fondatori, un campanello d’allarme dovrebbe risuonare nella testa di tutto l’establishment. Non si dimentichi che nel ‘57 a firmare il Trattato di Roma furono: Repubblica federale tedesca, Francia, Italia, Spagna, Lussemburgo, Olanda e Portogallo. Messe fuori gioco Italia e Francia, l’Unione europea, per come la si è conosciuta, specie dopo Brexit, non esisterebbe più.

Il problema è allora quello di capire come mai l’Unione europea sembra costretta a comportarsi come Crono, che per sopravvivere doveva uccidere i suoi figli. Finché si trattava solo dell’Italia: tanto tanto. Si poteva sempre pensare ad una tara atavica: italiani indisciplinati e amanti del bel vivere. Cicale spensierate che non pensano al domani. Ma i francesi? Forse anche loro sono stati contagiati dallo stesso male? Certo non hanno un debito così alto come quello italiano. Ma anche questa è solo mitologia. In valore assoluto, il debito francese non è poi così lontano. Recupera tutta la sua differenza, se rapportato al Pil (98 contro il 130 per cento), ma in questi ultimi 10 anni è cresciuto con una velocità maggiore rispetto all’Italia.

Al di là di questi aspetti statistici, che pure contano, la riflessione va condotta sulle diversità delle politiche economiche, portate avanti dai due Paesi, e sul comune fallimento. Anche se quello del governo giallo-verde è solo dato per scontato, in attesa di quel che verrà. In Francia, invece, il segno era stato ben evidente. Nel 2018 il calo delle imposte era stato pari allo 0,3 per cento del Pil: finanziato da una compressione della spesa in termini reali di pari importo. Sebbene la sua crescita in termini nominali fosse pari all’1,8 per cento. Ancora più importanti gli interventi previsti per il 2019. Con il ripristino della Cice (crédit d’impôt pour la compétitivité et l’emploi) che avrebbe dovuto comportare un taglio permanente dei contributi sociali per lo 0,9 per cento del Pil. Taglio che doveva essere compensato, prima del diluvio dei gilet gialli, da un aumento delle imposte sui tabacchi e sui prodotti energetici per lo 0,2 per cento del Pil. Strategia, più volte suggerita dalle Istituzioni internazionali (meno tasse sul lavoro e più sui consumi) ma sotterrata dagli scontri di Parigi e dalla retromarcia di Macron.

In Francia, in definitiva, una politica di sviluppo incontra le ira del ceto medio-basso, che scende in strada. In Italia si è solo giocato d’anticipo con una campagna elettorale, prima, ed un programma di governo poi, tutto centrato su promesse, che hanno solo evitato il peggio. Modalità diverse, ma stessi risultati: un deficit di bilancio che non rientra nei limiti canonici. E che quindi non può che essere sanzionato. Se questo fosse l’unico orizzonte a cui guardare. Ma quando il contrasto tra la regola ed il mondo diventa così evidente, non è quest’ultimo che può cambiare. Ma l’impianto complessivo della governance, su cui limiti è giunto il momento di avviare una profonda riflessione


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