Il vertice dei Capi di Stato e di Governo, riunito in assetto area-euro, ha preso una decisione storica: creare un bilancio autonomo per l’area dell’euro, riconoscendo le sue peculiarità in termini d’interdipendenza e la conseguente necessità di individuare strumenti per superare le rigidità del Patto di Stabilità e Crescita e dare all’euro ed alla Banca Centrale Europea una controparte politica, discrezionale. Peccato che, come al solito, l’Europa si muova al rallentatore…
Il contesto internazionale si sta deteriorando. Protezionismo, fine del multilateralismo, incapacità di affrontare uniti sfide globali come i cambiamenti climatici sono tratti preoccupanti di una nuova stagione di potenziali (e già effettivi, in campo economico) conflitti fra Stati su scala planetaria. Un quadro che avrebbe bisogno di una potenza credibile, portatrice di valori di apertura, dialogo, democrazia multi-livello. Che dovrebbe essere l’Europa. Unita.
Ma questa Europa non è ancora in grado di uscire dalla logica diplomatica intergovernativa. Né di darsi degli obiettivi coerenti con un’analisi pur sensata delle criticità che la attanagliano e la immobilizzano.
Serve l’unione bancaria per spezzare il legame fra crisi dei debiti sovrani e sistema bancario; serve un fondo di stabilizzazione per fronteggiare crisi asimmetriche; serve un bilancio dell’eurozona per generare investimenti che aiutino la convergenza non conseguibile a carico dei bilanci nazionali. Tutto ottimo. Ma non si può continuare a segnalare problemi che avrebbero dovuto essere stati risolti già 6 anni fa senza un impegno immediato e concreto.
I cittadini europei aspettano delle risposte. Urgentemente.
Attendono sempre meno pazienti il riscatto dello stato sociale rispetto al mondo della finanza; investimenti collettivi in infrastrutture volte realmente a promuovere crescita, non a creare ulteriori cattedrali nel deserto; la trasformazione dell’Europa in un soggetto credibile sul piano interno ed internazionale, capace di generare sicurezza, difesa, crescita. Pensano i Capi di Stato e di Governo che annunciare qualche (futuro) progresso rassicurerà quasi mezzo miliardo di cittadini europei, convincendoli ad abbandonare gli slogan del sovranismo nazionalista? Ne dubitiamo.
In Italia, ad esempio, un “popolo” che finge di non capire la differenza fra “due e quattro” inteso come 2,4 e come 2,04 di deficit (l’accordo trionfalmente sostenuto dal nostro governo: quasi sette miliardi di euro in meno a disposizione per reflazionare l’economia e promuovere una crescita che non viene promossa, continuando a preferire spesa elettorale largamente improduttiva) può ritenersi soddisfatto dell’accordo raggiunto oggi a Bruxelles? O più probabilmente lo ignorerà, ritenendolo inutile? E il problema è che non gli si può nemmeno dare completamente torto.
Proprio noi italiani avremmo interesse a partecipare a pieno titolo (ossia in maniera credibile) ai negoziati per modificare le storture e le perversioni della governance economica europea; ed a forzare la mano ai partner europei per una maggiore, più rapida e più concreta trasformazione – ad esempio – del fondo salva-Stati in un Fondo Monetario Europeo che risponda (anche) al Parlamento, non (solo) ai governi. Proprio noi avremmo interesse a spezzare il legame fra crisi del debito e crisi bancarie, a promuovere un meccanismo anticiclico, ad un welfare state che oggi può essere difeso solo nel quadro di una visione strategica del modello di sviluppo europeo.
E invece, ci scommettiamo, ci allineeremo sulla (oggi blanda) retorica del successo che ha creato così tanti danni in Europa negli ultimi decenni, limitandoci a dire che l’accordo raggiunto è importante e utile (senza probabilmente averne colto limiti e potenzialità effettive).
Ogni volta i vertici europei sono prodighi di proclami (come il “significativo rafforzamento dell’unione economica e monetaria”) che annunciano azioni nei mesi successivi. Salvo che poi, nei mesi successivi, arrivano solo altri proclami che spostano ancora più in avanti il momento dell’azione.
Speriamo di sbagliarci, ma anche stavolta la sensazione, netta e triste, è che la montagna abbia partorito il classico topolino.