La manovra è agli sgoccioli (stasera partirà la discussione generale in Aula alla Camera) ma rimane il nodo dell’accordo con l’Europa. Perché anche un deficit al 2% potrebbe non bastare a convincere Bruxelles circa la bontà dell’operato italiano in materia di conti pubblici. Il tempo stavolta non sembra essere tanto galantuomo. C’è ancora una settimana, per trovare una formula vincente che convinca l’Europa, visto che il termine ultimo per provare a bloccare la procedura d’infrazione messa in moto da Bruxelles sulla manovra italiana è il 19 dicembre.
Ma il premier Giuseppe Conte sta lavorando per fare prima, portando il deficit al 2% ma con un extra, in grado di rendere più facile digerire il target di disavanzo fissato dal governo gialloverde. E cioè il rafforzamento degli investimenti a discapito di reddito di cittadinanza e pensioni. L’occasione buona per portare all’attenzione dell’Ue l’intero pacchetto potrebbe arrivare già con il Consiglio europeo del 13 e 14 dicembre. Due giorni prima Conte potrebbe fare la sua mossa e a Bruxelles il giorno dopo provare a coagulare il consenso dei leader europei. Ma funzionerà? Giampaolo Galli, economista con un passato ai vertici di Confindustria e in forza all’Osservatorio dei conti pubblici accanto all’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli ha delle perplessità in merito e anche piuttosto forti.
Galli, pensa che il governo se la possa cavare riducendo il deficit 2019 al 2%?
Quello che posso dire è che il 2% è fuori dalle regole europee e questo tecnicamente richiede la conferma di un giudizio negativo.
Intende dire che la Commissione potrebbe accettare un compromesso al limite delle regole?
Questo non è impossibile, ma avrebbe delle conseguenze. Sancirebbe la crisi definitiva dell’attuale sistema di regole europee che peraltro sono già sotto accusa per avere consentito eccessivi margini di flessibilità ad alcuni paesi, tra cui l’Italia.
E dunque?
Dunque le attuali regole finirebbero per essere sostituite da regole più severe, non certo più flessibili. La grande preoccupazione in Europa è di essere costretti a intervenire per salvare l’Italia da una crisi finanziaria. Per questo si cercano modi per evitare che il caso Italia possa ripetersi.
Quali cambiamenti potrebbero essere introdotti?
Alcuni sono già stati introdotti nell’ultima riunione dell’Eurogruppo: regole che facilitano la ristrutturazione dei debiti pubblici, in un momento in cui solo l’Italia potrebbe essere interessata, e prestiti precauzionali del fondo salva stati a paesi con i conti in ordine, ma colpiti da shock esterni. Tradotto: un cordone sanitario per proteggere gli altri paesi da una eventuale crisi italiana. Altri cambiamenti sono elencati nell’ultimo rapporto dello European Fiscal Board.
Ce ne dica alcuni…
Sanzioni più severe, incluso il blocco dei fondi europei ai paesi devianti. Eliminazione delle tante clausole che in questi anni hanno consentito ampi margini di flessibilità (clausola per le riforme, per gli investimenti, per le calamità naturali, margini discrezionali). Riforma della governance al fine di attribuire a un organo tecnico e non più alla Commissione l’onere di giudicare se un paese rispetta le regole. Molti pensano anche che si dovrebbe dare un maggior peso alle sanzioni del mercato ricorrendo a regole più o meno automatiche per la ristrutturazione dei debiti sovrani. In definitiva, se venisse accettato il 2%, il futuro per l’Italia non sarebbe più facile, ma più difficile.
Ma non si può negare che questo Paese abbia un gran bisogno di investimenti pubblici…
Certamente. Però non è detto che li si debbano fare a deficit. In tutto il mondo viene usato il project financing, che consente di finanziare opere senza ricorrere al disavanzo. In Italia questa leva viene poco usata e il motivo è presto detto: i privati tendono a fidarsi poco dell’amministrazione pubblica, perché ogni volta che cambia una giunta o un governo si cambiano le regole del gioco. Invece il project financing ha bisogno di regole stabili sull’arco dei decenni.
Cosa pensa del partito del Pil che si è visto a Torino?
Quello che si è visto a Torino obiettivamente non l’avevo mai visto. Parlo dell’aggregazione di tantissime sigle, che spesso sono in conflitto tra loro. Ricordo che nel 2011, il giorno prima della famosa lettera della Bce, ci fu un documento comune che coinvolse quattro sigle e i tre sindacati principali. Ma a Torino è stato qualcosa di diverso. C’è tanta rabbia tra le imprese, per lo spread, per i cantieri fermi, per una manovra che penalizza le categorie produttive. E sembra che il governo non ne stia tenendo conto.