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Jacques Mourad, parla il monaco rapito dall’Isis che crede ancora nel dialogo

“Islam, musulmani? Sono entrati nella mia vita quando ho conosciuto padre Paolo Dall’Oglio. Prima la mia vita ad Aleppo trascorreva in un quartiere integralmente cristiano, senza un’idea di chi fosse l’altro musulmano. Quando sono andato a Mar Mousa e ho conosciuto padre Paolo il suo progetto non è mi è piaciuto per niente. Mi ci è voluto tempo per capire che il dialogo è la chiave di volta della nostra vita, l’architrave su cui costruire. Tutto sommato quando Dio ha creato Adamo si è reso conto che mancava qualcosa, ed ha creato Eva”. L’altro è questo per ciascuno di noi, per ciascuna cultura, e le parole di padre Jacques Mourad fanno capire quanto erronea sia la nostra rappresentazione di una Siria pre-conflitto dove il dialogo fosse di casa, ovunque. Poi l’uragano-Dall’Oglio ha capovolto il punto d’osservazione dell’aleppino Jacques Mourad tanto che lui oggi può dire di avere un sogno: superare il curriculum scolastico che nelle scuole siriane separa cristiani e musulmani all’ora di religione creando un’ora di religione comune; perché Dio ci unisce, non ci divide, nelle nostre diversità, per consentirci di conoscerci. Un’idea fortissima, di cui padre Mourad ha detto di aver sentito parlare per la prima volta, anni fa, da padre Dall’Oglio, e che oggi gli appare la priorità. Sentirlo parlare, di sé e di suo fratello Dall’Oglio, fa capire perché questo tandem orientale-occidentale andasse espulso, eliminato. E perché questa priorità non fosse di un solo soggetto, ma di tanti.

La centralità del progetto culturale del dialogo è emersa in tutta la sua forza nel discorso che il co-fondatore della Comunità monastica di Mar Musa ha tenuto ieri alla Comunità di San Paolo, parlando più spesso del sequestro del fratello Paolo Dall’Oglio che del suo. Anche lui è stato sequestrato dall’Isis, rinchiuso in un bagno di Raqqa e poi in un hangar insieme a tutti i suoi parrocchiani: ma dopo cinque mesi di sequestro è riuscito a organizzare una fuga di massa grazie ad amici musulmani che hanno nascosto tutti su camion carichi di fieno o animali o in motocicletta, attraverso il deserto. Loro, i musulmani che li hanno fatti fuggire, sono stati massacrati con rabbia, ma nel libro in cui racconta la sua avventura padre Jacques dice con parole che lasciano sgomenti di non aver mai creduto alla versione ufficiale. Non dice di più, è un passaggio che siamo chiamati a capire noi, nella nostra consapevolezza di cittadini del mondo che sanno capire che non esiste il bianco e il nero, non esistono i buoni e i cattivi, ma una realtà molto più cinica, pronta a usarci l’uno contro l’altro per farsi beffa di noi e dei nostri  schematismi. Padre Jacques ha voluto aggiungere un dettaglio che nel suo libro, “Un monaco in ostaggio”, edito in francese e forse di imminente traduzione in italiano, non ho trovato. Prima del sequestro alcuni abitanti del piccolo centro dove fu sequestrato collaborarono con l’Isis, ma dopo il rilascio tanti si presentarono a casa dei rilasciati, per donare loro fiori e cibo. E nelle menti dei tanti sottratti alle grinfie dell’Isis il bene ha cancellato il male, “il bene ha prevalso facendo dimenticare il male, per tutti, perché è più forte del male.”

Anche se è chiaro che a lui non piace parlare di sé “mentre oggi ci sono milioni di siriani che soffrono, che seguitano a soffrire, padre Jacques ha accettato di ricordare e di tornare a dire qualcosa su quei giorni. Ha ricordato la sorpresa davanti al sequestratore che a differenza di altri gli suggerì di considerare quei giorni come un ritiro spirituale, e così, invogliando con la sorpresa a leggere il suo libro, quasi timidamente appoggiato sul bancone della grande sala, scoprire di un altro colloquio, quello in cui un capo jihadista gli disse di non aver problemi con Assad, ma con tanti altri soggetti del conflitto. Jacques Mourad non è voluto entrare nel suo racconto nelle questioni politiche dell’oggi, ha voluto insistere con parole, a volte commoventi, sull’indispensabilità del dialogo, ma non tra religioni, bensì tra persone, tra esseri umani. Il dialogo con l’Islam per lui dunque è il dialogo con i musulmani, quelli che vivono intorno a noi, quelli veri, quelli che non conosciamo nel nostro quartiere, nella nostra città, non un islam teorico, astratto, mi viene da dire “compatto”. È questa la sfida che intende portare avanti tornando nel Kurdistan iracheno dove nel monastero di Suleimania i suoi confratelli aiutano i profughi siriani. Come? “Da profugo tra profughi”, ha detto il monaco siriano con l’eterno sorriso sul volto. Un sorriso contagioso, che sembra aver superato  il trauma del sequestro, ma forse non quello del male che resiste inosservato e non raccontato nel suo Paese. C’è stato un altro passaggio molto importante nel suo discorso. Prima di salutare padre Jacques ha parlato delle enormi difficoltà che derivano dal confessionalismo politico, per cui ognuno è definito dalla sua appartenga comunitaria. Anche se, magari non è credente, ma per la società lui tale resta. Un problema che si supererà solo creando davvero la cittadinanza: non la comunità araba, non la comunità islamica, ma la comunità dei cittadini di un Paese, chiamati a difendere il loro bene comune. Cammino lungo, certamente, ma che senza il dialogo religioso, di cui ha parlato padre Jacques, neanche si sarebbe cominciato.

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