Possiamo dire ciò che è veramente dolce e ciò che è veramente salato? La risposta dipende molto dalla nostra soggettività. Eppure i dolci ci sono, come pure i pasticcieri. Così il dibattito che si sta svolgendo a livello parlamentare e con le associazioni di categoria e ambientaliste sembra aver smarrito il significato (e il sapore) vero dell’Eow (“end of waste”, fine del rifiuto).
Scusate, siamo nel mondo dei rifiuti. Anzi, meglio, dei rifiuti che dopo un processo di selezione e trattamento, rifiuti non sono più, ma sono diventati di nuovo materie prime. Insomma, un tipico strumento dell’economia circolare per ottimizzare la vita della materia e aumentare il riciclo. Sta di fatto che dopo una sentenza della Cassazione di qualche mese fa, che ha ribadito le competenze nazionali per dettare i criteri dell’Eow, gli iter a livello regionale degli impianti per la produzione di Eow si sono bloccati. Ciò ha creato ai rifiuti raccolti ulteriori problemi di sblocco, oltre a quelli dovuti alle politiche cinesi (meno accomodanti nell’accogliere rifiuti dall’Europa e dagli Usa) e alla cronica strutturale di impianti per la gestione dei rifiuti nell’Italia centro meridionale.
Il dibattito in corso riguarda il rimedio normativo da approvare per far fronte alla situazione di blocco che si è creata nelle autorizzazioni e negli investimenti, magari con una norma nella Legge di Stabilità o nel DL Semplificazione. Da una parte il ministro dell’Ambiente e alcune forze politiche, che sostengono una soluzione in cui il ministero detti tutte regole e criteri per l’Eow individuando con decreti ministeriali e linee guida tipologie e standard; dall’altra le categorie industriali, alcune associazioni ambientaliste e altre forze politiche che sostengono una soluzione che consenta alle regioni di concludere gli iter amministrativi praticamente conclusi.
Chi ha ragione e chi ha torto? Dov’è il dolce e dove è il salato? Difficile dirlo. Eppure i dolci ci sono e i pasticcieri anche. Basta leggere la Direttiva Rifiuti n. 851/2018, che dovremmo recepire a breve e, in particolare, l’art. 6.
Secondo il paragrafo 2 “La Commissione monitora l’evoluzione dei criteri nazionali per la cessazione della qualifica di rifiuto negli Stati membri e valuta la necessità di sviluppare a livello di Unione criteri su tale base. A tale fine e ove appropriato, la Commissione adotta atti di esecuzione per stabilire i criteri dettagliati sull’applicazione uniforme delle condizioni di cui al paragrafo 1 a determinati tipi di rifiuti”. Quindi non sempre e non necessariamente la Commissione interverrà.
In ogni caso, sempre secondo l’art. 2, “Tali criteri dettagliati garantiscono un elevato livello di protezione dell’ambiente e della salute umana e agevolano l’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali. Essi includono:
a) materiali di rifiuto in entrata ammissibili ai fini dell’operazione di recupero;
b) processi e tecniche di trattamento consentiti;
c) criteri di qualità per i materiali di cui è cessata la qualifica di rifiuto ottenuti dall’operazione di recupero in linea con le norme di prodotto applicabili, compresi i valori limite per le sostanze inquinanti, se necessario;
d) requisiti affinché i sistemi di gestione dimostrino il rispetto dei criteri relativi alla cessazione della qualifica di rifiuto, compresi il controllo della qualità, l’automonitoraggio e l’accreditamento, se del caso; e
e) un requisito relativo alla dichiarazione di conformità.”.
Insomma, la direttiva fissa già i criteri per gli Stati membri. Questi criteri e non altri devono essere rispettati dagli Stati membri. E questi criteri, in quanto criteri nazionali, dovranno essere rispettati dalle autorità regionali. Perché se allo Stato spetta la fissazione dei criteri, le competenze in materia autorizzativa sono a livello regionale. Inserire tali criteri nel “rimedio normativo” avrebbe il pregio di evitare almeno un decreto e delle linee guida. Semmai ci fosse la necessità di intervenire la Commissione può farlo con atti ad hoc in cui “tiene conto dei criteri pertinenti stabiliti dagli Stati membri a norma del paragrafo 3 e adotta come punto di partenza quelli più rigorosi e più protettivi dal punto di vista ambientale”.
Insomma, non male: la Commissione si riserva di intervenire nei confronti degli Stati membri ma, ovviamente, in maniera rigorosa. Come può fare un’amministrazione centrale con le regioni, che sono entrambi espressione dello “Stato membro”. La mancata fissazione di criteri a livello di Ue legittima, ovviamente, “gli Stati membri possono stabilire criteri dettagliati sull’applicazione (…) a determinati tipi di rifiuti”. Tali criteri dettagliati tengono conto di tutti i possibili effetti negativi sull’ambiente e sulla salute umana della sostanza o dell’oggetto e soddisfano i requisiti di cui sopra.
In questo caso gli Stati membri notificano alla Commissione tali criteri. E laddove non siano stati stabiliti criteri né a livello di Unione o né a livello nazionale gli Stati membri possono decidere caso per caso o adottare misure appropriate al fine di verificare che determinati rifiuti abbiano cessato di essere tali in base alle condizioni e criteri stabiliti dall’art. 6 della Direttiva. Gli Stati membri possono rendere pubbliche tramite strumenti elettronici le informazioni sulle decisioni adottate caso per caso e sui risultati della verifica eseguita dalle autorità competenti.
Il “rimedio normativo” allo studio potrebbe prendere spunto da queste ulteriori disposizioni, evitando ulteriori decreti e intervenendo laddove necessario, creando un sistema che dia trasparenza alle decisioni adottate. Dopodichè (è ovvio) che spetterà all’amministrazione centrale adottare i tanti criteri Eow necessari per migliorare il sistema delle MPS (“materie prime secondarie”) istituito con il DM 5.2.1998, giusto vent’anni fa.