L’Emirato del Qatar uscirà dall’Opec a partire dal prossimo primo gennaio 2019. Quale fondamento primario di questa scelta c’è il progetto, da parte dell’Emirato, di divenire il leader mondiale del mercato del gas naturale, passando dai 77 milioni di tonnellate annue ai previsti 110; ma c’è, ovviamente, anche una sottostante decisione geopolitica ed energetica a fondamento della attuale scelta del Qatar. Questa dell’Emirato è la risposta finale al boicottaggio che fu imposto dall’Arabia Saudita allo stesso Qatar nel giugno 2017, con il sostegno di Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Yemen, Maldive, il governo libico del Gna, dell’Egitto, della Giordania; il tutto peraltro sulla base dell’accusa, da parte di Riyadh, secondo la quale il Qatar sosterrebbe, da solo e genericamente, “il terrorismo”. Il tutto, ovvero il blocco, accadde due giorni dopo che il Presidente Trump aveva incontrato ben 55 capi di Stato arabi e musulmani per costruire una sorta di equivalente della Nato, sempre contro il “terrorismo”, una alleanza da costituire subito per contrastare, soprattutto, il pericolo sciita e iraniano.
Lasciamo qui stare le ben ventotto pagine espunte dalla relazione del Senato Usa sull’11 settembre, che proverebbero definitivamente il nesso tra quegli operativi di Al Qaeda e il regime di Riyadh, lasciamo da parte anche le numerose, poliennali segnalazioni di finanziamenti, privati e pubblici, ai jihadisti, infine le linee di credito aperte, sempre da parte di cittadini eminenti del Regno wahabita, al califfato sirio-iraqeno di Al Baghdadi. Ma i sauditi sono troppo ricchi per non essere creduti, soprattutto dagli Usa; e quindi il grande blocco del Qatar è riuscito, anche con l’appoggio di alcuni Paesi occidentali. Le cui truppe fanno riferimento, come quelle Usa, al Centcom, presso la base di Al Udeid, per tutto il Medio Oriente, una base che ha sede proprio in Qatar. Le caratteristiche strategiche del Qatar, che da oggi vuole costruire la sua organizzazione autonoma del gas naturale, autonoma da quella del petrolio Opec (che non tratta il gas) e comunque dominata dai sauditi, sono molte e interessanti: in primo luogo, i qatarioti sono, probabilmente, i cittadini più ricchi del mondo. Se poniamo il reddito medio degli americani a 100, quello dei cittadini del Qatar vale 187,4. Appena più piccolo delle Isole Falkland, l’Emirato ha 1,9 milioni di residenti, con una quota di immigrati elevatissima e sempre in crescita. E anche l’economia lo è: l’Emirato è cresciuto di una media del 12,9% annuo, ogni anno, dal 2000 al 2010. La crescita futura, fino al 2022, si prevede essere del 18% maggiore di quella attuale. Vi è poi un segnale geopolitico interessante: il Qatar ha partecipato con grande impegno alle operazioni occidentali contro Gheddafi, sostenendo in particolare il mercato nero dei petroli della Cirenaica, insieme ai Servizi turchi. Ma Doha poi sostiene anche alcuni gruppi “ribelli” jihadisti siriani contro Assad, facendo così un mezzo favore agli alleati Usa; il tutto mentre ospita, fin dal 2013, un ufficio di rappresentanza dei Taliban afghani, ufficio ben conosciuto e frequentato anche dagli operativi dei Servizi Usa. Gli investimenti industriali e finanziari globali del Qatar sono comunque numerosissimi.
L’Emirato possiede, tramite il suo fondo sovrano, rilevanti quote della Agricultural Bank of China, e certamente l’operazione di uscita di Doha dall’Opec è stata benedetta da Pechino, poi l’Airbus Group, la stessa Borsa di Londra (al 15,1%) la Volkswagen (al 17%) la Lagardère, grande società di edizioni, contenuti e editoria, poi il club di calcio Paris St.Germaine, la Virgin megastore, la Hbsc, uno dei più grandi gruppi bancari al mondo, il Credit Suisse, al 5,20%, la Veolia, società di servizi di origine francese per l’acqua e il gas. Non contiamo qui le innumerevoli operazioni immobiliari: Porta Nuova a Milano, il Westin Excelsior di Roma, il Gallia di Milano, la Costa Smeralda in Sardegna, la Deutsche bank, la Barclay’s, la Royal Dutch Shell, Tiffany, la Siemens, l’aeroporto di Heathrow, la Walt Disney e la società dello Empire State building. Oltre a tante altre partecipazioni che qui non citiamo. Ma c’è anche il 3% di Total, che per noi italiani è un segnale di estrema importanza, la maggioranza della cinematografica Miramax, il gigante russo del gas naturale e delle materie prime Rosneft, poi il grande progetto quinquennale per il gas di petrolio liquefatto in Germania e in Ue, un progetto da 30 miliardi di Usd, di cui 10 investiti per la sola Germania.
Tra Qatar e Arabia Saudita, quindi, nella lotta tra Caino e Abele, tra produttori di petrolio ed estrattori di gas naturale, vi è quindi una vera e propria guerra per la conquista egemonica delle aree tecnologicamente evolute e dell’Europa soprattutto, per acquisirne in modo definitivo i mercati e per utilizzarne le possibilità di diversificazione. Inoltre, il Qatar è ricco di gas naturale almeno come l’Iran (e l’Emirato partecipa allo sfruttamento, con la Repubblica sciita, del giacimento marino South Pars II) ma anche come la Federazione Russa. La nuova “Opec del gas” incentrata su Doha significa, quindi, che non c’è più l’Opec petrolifera sunnita amica degli Usa, proprio quella che organizzò il grande riciclaggio dei petrodollari iniziato dopo la guerra dello Yom Kippur contro Israele di Egitto e Siria, nel 1973. Un riciclaggio di petrolio a prezzo “alto” contro i dollari Usa che ha creato, dopo la fine degli accordi di Bretton Woods, la nuova egemonia della moneta Usa e il suo tasso di cambio improprio, malgrado i suoi fondamentali interni. “Il dollaro è la nostra moneta e il vostro problema”, disse il governatore della Fed Paul Volcker ai suoi colleghi capi delle banche di emissione europee. E non c’era ancora la tenue timidezza irresoluta dell’euro, a complicare il quadro. Una moneta, quella europea, che non è lender of last resort ma che gioca a fare la divisa globale in alternativa al dollaro Usa. Con i risultati operativi che possiamo immaginare. Non è quindi un caso che le uniche utilizzazioni strategiche dell’euro sono state quelle iraniane, nelle borse petrolifere delle isole nel Golfo Persico, per quote minime, o quelle, più sbandierate che reali, di Saddam Husseyn. In sostanza, tornando al senso geopolitico della recentissima operazione autonomistica del Qatar, tutto ciò vuol dire che i 600mila barili/giorno di petrolio estratti dal Qatar sono ritenuti da Doha del tutto marginali, e certo non possono mai far concorrenza agli 11 milioni/giorno dei sauditi. Il Qatar gioca con il suo gas naturale, non muove le carte petrolifere. Ma l’attuale operazione di Doha presuppone una scelta strategica di qui a poco, che potrebbe essere o la creazione di una “Opec del gas” con Russia e Iran, in vista di un raddoppio nel 2019 dei prezzi del gas di petrolio liquefatti, con la Cina che diviene il primo consumatore mondiale di Gpl e gli Usa il primo estrattore di petrolio al mondo, sia pure con le nuove e costose tecniche dello shale, che generano utili solo con alti prezzi del barile. Oppure, una alleanza economica e finanziaria tra Doha, la Cina, il Giappone e la Russia, che potrebbe marginalizzare l’area del dollaro riducendola al petrolio.
Sul piano geopolitico, ciò significherà sicuramente una maggiore instabilità, non necessariamente del tutto pacifica, tra l’Emirato e il Regno saudita; mentre il Qatar investirà, come farà anche in Ue, nelle trasformazioni industriali del Gpl, che riguardano soprattutto le plastiche, le resine e tutti i prodotti di sintesi dagli idrocarburi. Se la Russia, che gioca anche sul tavolo saudita, riuscirà a controllare la sua produzione petrolifera, in linea con l’Opec sunnita, allora l’operazione del Qatar avrà avuto successo, ma solo per la creazione del nuovo mercato del Gpl, e il Qatar non intaccherà le posizioni già raggiunte da Riyadh e dai suoi alleati. Se invece la Russia e l’Iran aumenteranno la produzione petrolifera, allora l’Opec filo-saudita salterà definitivamente in aria e le aree produttive africana, indonesiana, sudamericana dovranno cercare altri cartelli regionali e, quindi, altri assi geopolitici. Finirà, inoltre, il rapporto bilaterale tra Usa e Arabia Saudita, dato il nuovo potere produttivo e petrolifero degli Usa, la loro capacità esportatrice globale e, infine, la loro autonomia dai cicli politici e finanziari mediorientali. Peraltro, l’economia del Qatar, secondo le linee di intervento dell’Emiro, è diretta verso l’accumulo degli investimenti esteri, soprattutto dopo il blocco del 2017, che ha causato l’arrivo di numerosi capitali dall’Asia e dallo stesso Medio Oriente, oltre all’apertura di nuovi porti e alla definizione di nuove zone economiche speciali. Sia i sauditi che l’Emirato hanno poi utilizzato le rivolte arabe, le cosiddette “primavere”, per allargare il loro personale potere e creare una forte concorrenza tra i Paesi del Golfo. Inoltre, Doha ha utilizzato la fase successiva alle “primavere” arabe per riquadrare i propri tradizionali assi di espansione: il rapporto speciale con la Fratellanza Musulmana e il suo nesso, ormai storico, con l’Iran. L’Emirato, infatti, ritiene che la Fratellanza Musulmana sia l’asse centrale della politica araba e, quindi, intende sostenerla. Mentre tutti gli altri, in linea con i sauditi, la reprimono.
Anche dopo la caduta del regime dei “Fratelli” in Egitto, con il golpe orchestrato da Al Sisi nel 2013 contro Mohammed Morsi, il Qatar continua a sostenere l’Ikhwan fraterno, ovvero anche Hamas e tutte le altre organizzazioni che si sono integrate nella rete globale della Fratellanza Musulmana. La tensione con il Qatar, da parte dei sauditi, deriva anche dal nesso geo-economico di Doha con l’Iran e, soprattutto, dalla crescita economica di Teheran dopo gli accordi del Jcpoa sul nucleare iraniano del 2014, accordi che Riyadh non vuole creino la ripresa economica, petrolifera, militare dell’Iran sciita. Non è escluso, peraltro, che, a breve tempo, i sauditi, magari sostenuti dagli Usa, i quali ormai credono a ogni favola “antiterroristica”, organizzino perfino un golpe contro gli Al-Thani e l’élite attuale del Qatar. La sequenza dei golpe tentati e non riusciti è già lunga. Sarebbe, questo, un suicidio geopolitico, ma non è impossibile che ciò accada. Il Pakistan, il Bangladesh e altri Paesi sono ormai dipendenti dalle rimesse inviate dal Qatar dai loro concittadini in patria, anche se, come Paesi, si sono posti a lato dei sauditi durante il blocco del 2017. Ma la Tunisia (e dovremmo stare più attenti, in Italia, a questi passaggi infra-islamici) ha rifiutato fin dall’inizio di condannare il Qatar; mentre la Turchia, che ha operato con Doha durante la rivolta jihadista libica, non accetta il diktat di Riyadh così come, ovviamente, l’Iran ma, forse meno intuitivamente, l’Oman. Anche la Federazione Russa, che non aveva ben previsto lo scontro interno al Consiglio di Sicurezza del Golfo del 2017 verso Doha, si è progressivamente legata, dopo una fase ambigua, all’Emirato, pur senza mettere in discussione i suoi legami con Riyadh. Gli americani, poi, hanno perfino scoperto di avere ancora una grande base militare in Qatar e non possono quindi permettersi il lusso di un acuirsi dello scontro infra-arabo e, soprattutto, infra-wahabita, tra i sauditi e l’Emirato. Certo, la questione dei rapporti tra il Qatar e il “terrorismo”; o il nesso tra Doha e l’Iran è una questione del tutto incerta e ampiamente manipolata. Il discorso dell’Emiro sul suo sostegno all’Iran e a Hamas, criticando gli altri governi dell’area, un discorso che si doveva tenere il 23 maggio 2017, non è mai avvenuto. Ci sono stati annunci da parte delle agenzie saudite e degli Emirati, ma il discorso dell’Emiro non è mai avvenuto.
La agenzia nazionale di notizie di Doha ha parlato a questo proposito di una azione di hackers, ma nemmeno questo è certo. Poi, vi è anche la questione del miliardo di Usd pagato come riscatto a dei “banditi” in Iraq, da parte di alcuni membri della famiglia dell’Emiro. Una parte di questo denaro è arrivata, e questo è un fatto, alla “sezione” di Al Qa’eda in Siria, Jabhat Tahrir al Sham, con una quota del capitale che è poi arrivata, non troppo stranamente, al governo iraniano. Certo, poi vi è anche il sostegno alla Fratellanza Musulmana, di cui abbiamo già parlato, e vi sono ormai legami certi tra l’ikhwan e alcune reti finanziarie e politico-militari iraniane. Tutto è possibile, in Medio Oriente. A Doha c’è poi un ufficio “storico” dei palestinesi e anche uno di Hamas, parte integrante da sempre della Fratellanza Musulmana, mentre sono certi gli invii di denaro, rilevantissimi, del Qatar alla Fratellanza egiziana durante il governo Morsi e anche l’addestramento, a Doha, delle milizie dell’Ikhwan da ogni parte del Medio Oriente. Certo, la guerriglia in Libia dopo la caduta di Gheddafi è stata, almeno all’inizio, uno scontro tra le forze sostenute dai Servizi del Qatar e quelle organizzate dal resto degli Emirati, con un ruolo specifico, soprattutto economico, della Turchia. Alleata fedele del Qatar. La stupidità degli occidentali fece il resto. Peraltro, Doha ha anche spedito le sue truppe per il ritorno del controllo sunnita in Bahrein, durante la rivolta sciita del 2011. Né si deve dimenticare che, a parte la base Usa di Al Udeid in Qatar, la stessa Turchia sta costruendo una sua base in Qatar per ben 5mila militari, una base che ha sede a Tariq bin Ziyad, a sud della capitale.
Ma il Consiglio di Cooperazione del Golfo, lo strumento dello scontro tra i sauditi e il Qatar, come funziona? E non risente esso, come l’Opec, di una debolezza interna che lo blocca per ogni decisione rilevante? Il Ccg è stato fondato nel 1981. Non è stata peraltro mai raggiunta l’unione monetaria, che è stata progressivamente abbandonata dall’Oman e dagli Emirati. E l’Iran è letto ancora, dal Consiglio, come elemento “imperialista” di destabilizzazione radicale della penisola arabica, soprattutto con l’organizzazione degli sciiti in Arabia Saudita e in altre aree degli stessi Emirati. Gli sciiti all’interno del regime saudita sono tra il 15 e il 20%, soprattutto nelle zone di maggiore estrazione petrolifera. Ovvio che il regime di Riyadh non vuole a nessun titolo la destabilizzazione di queste aree e, soprattutto, non vuole la rottura del nesso tra gli Usa e il mondo sunnita della Penisola Arabica, rottura che preluderebbe, in breve tempo, alla vittoria degli sciiti di Teheran.