Da giorni, con qualche insistenza, si discute del “partito dei Vescovi”. Solo a citarlo viene alla mente l’operazione di Sturzo, alla fine della prima guerra mondiale, non per trovare analogie e conferme, ma per esprimere un sentimento che va ben oltre la prudenza, tingendosi finanche di meraviglia. Il Partito popolare nasceva infatti all’insegna della “aconfessionalità”, rifiutando l’incombenza negativa del clericalismo. Perciò, in largo anticipo sul Concilio Vaticano II dettava le linee dell’autonomia del politico, adottando il verbo della responsabilità dei laici.
Sturzo, insomma, non ideò il partito come prolungamento dell’impegno ecclesiale o come braccio operativo della Chiesa. Ci tenne sempre, anche in età avanzata, a rivendicare il valore di una iniziativa esterna ai Sacri Palazzi, di cui la Chiesa di Benedetto XV e del cardinal Gasparri – artefice poi, sotto Pio XI, dei Patti Lateranensi, susseguenti all’esilio di Sturzo e alla liquidazione del PPI- si limitò a prendere atto, certamente con la benevolenza che meritavano i protagonisti della coraggiosa intrapresa politica, in primis il prete di Caltagirone.
Proprio di questi tempi, esattamente il 16 e 17 dicembre del 1918, Sturzo riuniva a Roma la “Piccola Costituente” per mettere a punto il programma e l’organizzazione del nuovo partito. Esso non si sarebbe rivolto ai cattolici in quanti tali, bensì, come recitava il successivo Appello del 18 gennaio, avrebbe parlato senza preclusioni o pregiudizi “a tutti gli uomini liberi e forti”. Era dunque un partito d’ispirazione cristiana – la stessa matrice della Dc di De Gasperi a ridosso della Liberazione – senza essere appunto il “partito dei cattolici” (men che meno dei Vescovi). Sceglieva di misurarsi ad armi pari con le altre formazioni o correnti politiche, ponendosi culturalmente al centro, in posizione autonoma dai liberali e dai socialisti.
Noi, con gli occhi rivolti al nostro presente e alla necessità di un nuovo appello ai “liberi e forti”, a cento anni di distanza dall’originale, possiamo capire quale speranza abbia rappresentato all’epoca il partito sturziano. Purtroppo andò delusa, quella speranza, e fu male per l’Italia, travolta dalla retorica dannunziana e dal rivoluzionarismo socialista, con il fallimento della vecchia classe dirigente liberale, fino allo sbocco nella marcia su Roma di Mussolini. L’odierna irruenza demagogica non è molto diversa.
In effetti, dinanzi a un governo che sintetizza in un incongruo Dna di potere le cellule impazzite della destra e della sinistra, si avverte il bisogno di un centro alternativo al sovran-populismo, un vero “meta-luogo”, come lo ha definito padre Occhetta, di nuove politiche democratiche. C’è richiesta, in giro per l’Italia, di qualcosa che dia credibilità all’opposizione. In realtà, presumere che questa istanza di centro si traduca immediatamente in un partito è troppo; ma è anche troppo, all’opposto, ripetere che debba necessariamente intristirsi nel fraseggio del pre-politico, facendo al più del cattolicesimo democratico l’agenzia di formazione alla cittadinanza attiva.
Aggiriamo, allora, l’ostacolo di un partito artificiale e sperimentiamo l’opportunità di un movimento reale. L’idea può consistere nel “popolare di Popolari” il territorio, dando vita ai circoli dei “Liberi e forti”. Senza burocrazia, senza vincoli, senza gerarchie: un moto spontaneo, se possibile, avente l’auto-imprimatur dell’aderenza a un messaggio di progresso: nel rispetto della vita umana e dell’ambiente, valorizzando solidarietà e libertà, riscoprendo il significato autentico della coesione sociale, puntando sull’integrazione di popoli e culture. Un messaggio che valga a rinsaldare la speranza di un’Europa più dinamica e integrata, capace di guardare al futuro, disposta a investire sulle politiche d’innovazione e sulla necessaria crescita demografica, riscoprendo la funzione sociale della famiglia, delle autonomie, dei corpi intermedi. Diversamente, in assenza di questo rilancio, non si presenterebbe altro orizzonte se non quello della decadenza ineluttabile.
Dobbiamo riflettere, per tutto questo, sulle grandi responsabilità che tornano a pesare sulle spalle degli autentici democratici e sugli eredi, in particolare, del popolarismo sturziano.