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In Siria l’Iran cambia le regole del gioco

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Il coinvolgimento dell’Iran in Siria rappresenta una minaccia diretta a Israele e un possibile ostacolo agli interessi russi. Fino all’abbattimento dell’aereo militare russo a settembre, Israele ha potuto contrastare l’espansionismo iraniano con una serie di attacchi a siti militari in Siria. Dopo l’incidente, la Russia ha fornito ai siriani il sistema antimissilistico S-300, che avrebbe dovuto mettere fine alle operazioni militari israeliane. Il recente attacco a un sito militare a sud di Damasco, attribuito a Israele e non confermato da Gerusalemme, ha scatenato la condanna di Assad persino alle Nazioni Unite. La scelta della piattaforma internazionale dell’Onu per condannare Israele può esser commentata con sdegno o ironia. Ciò che più interessa però è lo sviluppo della politica iraniana nella regione da settembre, con Libano e Iraq nel mirino.

Tra i risvolti dell’incidente di settembre vi è anche la copertura mediatica della fornitura di armi iraniana a Hezbollah attraverso la Siria. Un altro volo partito da Teheran ha effettuato un atterraggio di “emergenza” a Beirut. L’Iran passerebbe armamenti a Hezbollah per sviluppare l’industria militare i cui siti Netanyahu a denunciato all’Onu. Le presenza militare iraniana in Siria è stata duramente colpita dagli attacchi israeliani ed ora si passa alla fornitura diretta a Hezbollah.

Dopo le elezioni di maggio, a Beirut ancora non si è formato un governo, mentre Hezbollah è di fatto in controllo delle strutture militari e parte del mondo politico. Hezbollah fa pressioni sul premier designato Hariri perché nomini come ministri sunniti pro-siriani (quindi favorevoli a Hezbollah, che controlla l’unica milizia che non è stata smantellata dopo la Guerra civile). In un sistema che penalizza gli sciiti, il gruppo capeggiato da Hassan Nasrallah si oppone alla formazione di un governo che non abbia sufficienti rappresentanti o politici simpatizzanti. Il quotidiano L’Orient Le Jour riporta la formazione di un “raggruppamento per la sovranità”, capeggiato da accademici e giornalisti per “l’opposizione pacifica” al partito sciita che minaccia la stabilità del Paese. Un altro episodio accaduto ieri nel distretto di Chouf, cuore del governatorato druso, dimostra la tensione nel Paese per via delle elezioni e della politica regionale: l’esercito libanese ha arrestato una cinquantina di manifestanti armati, sostenitori del leader druso Wahhab, pro-siriano. Il suo oppositore Joumblatt, che sostiene il premier Hariri, ha avvertito che il villaggio di Moukhtara è “una linea rossa, quali che siano gli equilibri regionali”. Nell’assenza di un governo, l’Iran rafforza Hezbollah, cui nemmeno l’esercito si oppone.

Il secondo focus dell’Iran è Baghdad, che anche arranca ad uscire dall’instabilità. Il quotidiano The Telegraph ha pubblicato un articolo che cita fonti di intelligence secondo cui l’Iran sta operando una politica di eliminazione di politici (sunniti e sciiti) non favorevoli a Teheran. Le Al-Quds Forces, unità speciale delle Guardie della Rivoluzione al comando di Qassem Suleimani, avrebbero ucciso una serie di esponenti politici che si oppongono all’influenza iraniana, tra cui Adel Shaker al-Tamimi, vicino all’ex primo ministro al-Abadi, e anche lo sciita Shawki al-Haddad, vicino al leader Moqtada al-Sadr (alleato di Teheran fino al ritiro delle truppe americane e di recente indipendentista). Fallito il tentativo di creare un governo pro-iraniano durante le elezioni e perso il sostegno del leader sciita al-Sadr, Teheran sarebbe passata ad altre misure per assicurarsi il controllo di Baghdad.

L’obiettivo iraniano è dominare la regione operando attraverso le comunità sciite. Nell’annuale conferenza per l’unità islamica, svoltasi la scorsa settimana in Iran, sono stati mandati tre chiari messaggi a Israele, Stati Uniti e Paesi arabi. Anzitutto lo slogan della conferenza “Quds (Gerusalemme in arabo), l’asse di unità della Umma (la comunità islamica nel suo complesso)” non lascia dubbi sulla centralità della lotta contro l’esistenza di Israele, definito anche dal “moderato” Rouhani come un “cancro” e un “falso regime” instaurato dalle potenze occidentali per indebolire il mondo islamico. Nei comunicati finali della conferenza si legge anche che l’opposizione a qualsiasi normalizzazione con Israele è un dovere religioso e morale (un’idea condivisa anche da vari altri gruppi che non si identificano come islamici). Poi il messaggio al popolo dell’Arabia Saudita, l’acerrimo nemico di Teheran: “Vi consideriamo nostri fratelli”, ha detto Rouhani, promettendo protezione dal terrorismo senza dover per forza “pagare milioni di dollari”, riferendosi agli accordi con gli Stati Uniti. Infine, il messaggio al mondo islamico e la necessità di unirsi contro gli Stati Uniti, citando Afghanistan, Iraq, Siria, Libano e Yemen, vale a dire gli Stati dove l’Iran può contare su gruppi politici e milizie sciiti in linea con la politica della Rivoluzione.

Il quotidiano iraniano Jam-e Jam ha pubblicato una serie di articoli sulla potenza militare iraniana e un’intervista al comandante delle forze aree delle Guardie della Rivoluzione, Amir Ali Hajizadeh, che loda le capacità militari iraniane, tra cui anche l’esportazione di armamenti nonostante le sanzioni. Lo stesso Hajizadeh nel 2016 aveva annunciato in occasione di esercitazioni missilistiche che l’Iran sarebbe capace di colpire il nemico sionista da una sicura distanza. In altre parole, le Guardie della Rivoluzione sono pronte a uno scontro militare.

Le risposte di Israele sono due: la settimana scorsa l’esercito israeliano ha effettuato un’esercitazione militare di ampia scala su due fronti congiunti (quello e nord e Gaza). Se è vero che è Israele ad aver colpito la base militare a sud di Damasco, allora il secondo messaggio sarebbe che Gerusalemme è pronta a colpire nonostante i divieti imposti dai russi dopo settembre.

Le sanzioni imposte da Trump stanno mettendo in ginocchio l’economia iraniana – anche i giornali più vicini al regime parlano di un nuovo sistema di rateizzazione del carburante. Il rafforzamento degli storici alleati americani nella regione, la perdita dell’influenza politica su Baghdad, e l’apertura verso Israele da parte di alcuni Stati arabi hanno aumentato il senso di accerchiamento del regime, che si sente minacciato dall’Occidente imperialista e dal mondo sunnita che lo circonda. Un clima di questo tipo porta a decisioni drastiche per il perseguimento di due obiettivi fondamentali: eliminare Israele e creare una linea sciita da Beirut a Baghdad.

Alcuni giornali arabi riportano un editoriale pubblicato su The Weekly Standard, intitolato “L’Europa ama il mullah”. Tralasciata la scelta linguistica di dubbio gusto (e anche poco corretta riguardo al contesto iraniano), la domanda che l’editoriale si pone, e che la stampa araba riporta, è: perché, nonostante i tentativi di attacchi terroristici su suolo europeo e l’opposizione interna al regime, l’Europa è decisa a salvare un accordo che ha portato sinora a rimpinguare i fondi di una politica di destabilizzazione?


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