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Siria, Russia e Cina all’attacco, mentre l’Occidente è ripiegato su se stesso

Europa in frantumi, alle prese con la Brexit, l’uscita di scena di Angela Merkel e la carenza di leader all’altezza. America scossa da una presidenza con più scheletri nell’armadio che ideali. Le sfide concentriche, strategiche e militari, di Putin e Xi Jinping sorprendono l’Occidente in un momento di profonda crisi. Le sharp wars cybernetiche, le azioni di guerra sotterranea, i conflitti e i blitz di Russia e Cina rimbalzano senza risposte adeguate a Washington, Londra, Parigi, Berlino, Roma e Madrid, tutte alle prese con pesanti difficoltà istituzionali, politiche ed economiche interne. Paradossalmente, nell’immaginario collettivo globale, la risposta alla scenografia e alla dialettica da dottor Stranamore del presidente russo è rappresentata dal ritiro dalla Siria annunciato dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. “Un momento sbagliato per una decisione giustificata” afferma l’editorialista Mauro Indelicato esperto di strategie politiche e militari. Formiche.net ne ha parlato con Mauro Indelicato, esperto di strategie militari e politiche.

Giustificata o no, perché la scelta di Trump di ritirarsi dalla Siria?

Più che altro, bisognerebbe capire in primo luogo se è stata o meno giustificata la scelta di andarci, in Siria. Anche se l’obiettivo della guerra al terrorismo ha in qualche modo imposto a Washington di muoversi, la missione per come è nata e per come è stata gestita presenta non poche ambiguità e lacune. In primo luogo per la modalità con cui l’azione Usa è iniziata, con truppe stanziate ad est dell’Eufrate e ad Al Tanf senza che sia pervenuta richiesta da parte del governo siriano. Per di più, quando nel 2014 gli Usa di Obama iniziano a bombardare obiettivi dell’Isis in Siria, non si consultano con Damasco o con le autorità locali. Questo ha dato l’impressione più di una missione di occupazione che di liberazione dal califfato.

E se fosse una delle solite decisioni sulle quali Trump poi aggiusta il tiro, anche alla luce delle dimissioni del Segretario alla Difesa, Jim Mattis?

Personalmente credo infatti che, prima di parlare di svolta, bisogna vedere effettivamente se nelle prossime ore inizieranno le manovre per far tornare a casa i soldati Usa. Ben si conosce il carattere di Trump, il quale ci ha abituati a repentini stravolgimenti politici e militari. Per di più il presidente per adesso è sotto pressione: come evidenziano le dimissioni di Mattis, il Pentagono non vuole lasciare la Siria, non è d’accordo con la scelta dell’inquilino della Casa Bianca. Potrebbe sorgere un braccio di ferro interno in grado di rallentare o bloccare la ritirata.

Cosa si lascia dietro l’intervento Usa?

L’eventuale abbandono americano avviene in un momento in cui il conflitto in Siria sembra scemare. L’unica zona fuori dal controllo del governo di Damasco è la provincia di Idlib, al di là ovviamente dei territori in mano ai curdi dopo che quest’ultimi li hanno strappati all’Isis. C’è quindi una Siria dove le partite si giocano più sul campo politico che su quello militare, un contesto radicalmente diverso da quello del 2014 quando invece più di metà paese risulta in mano al califfato.

Chi ci guadagna sul campo e chi no dall’eventuale ritiro?

I primi a guadagnarci, nell’immediato, sono i turchi. Ankara già da giorni ha pronto un piano per entrare in Siria anche ad est dell’Eufrate, sulla falsariga di quello che ha fatto con le operazioni “Scudo nell’Eufrate” e “Ramoscello d’Ulivo” tra il 2016 ed il 2018. L’obiettivo è stanare le basi di quelli che Erdogan ritiene essere terroristi curdi, complici del Pkk. Ma il presidente turco si è ben guardato dall’intervenire fino ad ora proprio perché ad est dell’Eufrate ci sono gli americani. Se per davvero gli Usa sgomberano il campo, sarà via libera per la Turchia. Ed a perderci ovviamente sono i curdi, i quali rischiano di ritrovarsi da soli in balia del fuoco turco.

I russi potenzieranno il loro intervento?

Non credo. Per adesso Mosca è impegnata nel potenziare la base di Latakia, vitale per effettuare i raid che hanno permesso all’esercito siriano di avanzare. Quella base prima del conflitto era un semplice aeroporto civile, dunque dopo più di tre anni di missione adesso era arrivato il momento di potenziarla anche perché è stata più volte sotto l’attacco di droni lanciati da alcuni gruppi ribelli. Probabile che il potenziamento della base di Latakia sia propedeutico all’attacco su Idlib, ma questi sono piani che prescindono dalla presenza americana, la quale è concentrata nell’est della Siria. Dunque, dal punto di vista russo, non credo cambi molto.

Come cambieranno i ruoli di sauditi, iraniani e turchi?

Per quanto riguarda i turchi, come detto, hanno il via libera per entrare nuovamente nel nord della Turchia e colpire i curdi. Se per davvero gli americani vanno via, i sauditi non possono fare altro che “ratificare” la situazione e riconoscere la vittoria del governo di Damasco. Di fatto sarebbe una definitiva rinuncia alle loro velleità di rovesciamento di Assad, dopo anni di finanziamento delle milizie islamiste. Possibile dunque che gli stessi sauditi, in difficoltà dopo i disastri nello Yemen ed il caso Kashoggi, avranno un ruolo nel cercare di far desistere alcune sigle poste sotto la propria influenza dall’intraprendere ulteriori battaglie ad Idlib. Per quanto riguarda gli iraniani invece, da giorni si vocifera che se vanno via gli americani allora vanno via anche loro. In poche parole, il campo di battaglia siriano, dove dal 2011 vengono combattute tante guerre per procura, potrebbe svuotarsi.



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