Su ‘Il Sole 24 Ore’ di ieri Marcello Minenna ha ridato voce ad una proposta di qualche mese fa, a firma sua, di Dosi, Roventini e Violi sulla riforma della governance economica dell’eurozona. L’idea è di utilizzare lo European Stability Mechanism per mutualizzare i debiti pubblici europei, in modo da diminuire il servizio del debito complessivo. Allo stesso tempo ciascun paese, per evitare l’azzardo morale generato dalla condivisione del debito, dovrebbe pagare all’EMS un premio assicurativo per garantire il Fondo contro i rischi specifici.
Si tratta di una proposta ragionevole, nel difficile tentativo di trovare un compromesso fra l’ossessione tedesca per la disciplina di mercato e quella francese per la condivisione del rischio, due posizioni difficilmente conciliabili, come dimostrano le proposte, spesso schizofreniche, franco-tedesche degli ultimi mesi.
Una proposta indubbiamente interessante e creativa, che permetterebbe all’EMS di promuovere investimenti (sperabilmente in beni pubblici europei) a livello sovranazionale, non incorporati nel calcolo dei deficit nazionali; che guarda inoltre lontano, perché in prospettiva apre la possibilità di finanziare investimenti rivolgendosi al mercato (eurobond).
Una proposta che presenta però due problemi: uno tecnico, ed uno politico. Il problema politico è che, come sottolineano gli stessi autori, difficilmente la Germania ed altri paesi europei accetteranno una qualche forma di mutualizzazione del debito, anche se venisse ‘scambiato’ con un prezzo country-specific per la condivisione del rischio da devolvere al finanziamento della crescita. Inoltre, se non verrà rimessa in discussone la governance intergovernativa dell’EMS, ci ritroveremmo con un problema di legittimità, ossia di scelte di finanziamento che rispondono ad un organismo tecnico come l’EMS, non politico (o solo indirettamente politico, visto che le decisioni sono assunte dai governi nazionali).
Il nodo tecnico è che l’assicurazione sul debito, che ciascuno Stato dovrebbe pagare all’EMS per fronteggiare i rischi specifici ad ogni paese, sarebbe sottoposta agli umori dei mercati finanziari. Invece che scaricarsi sullo spread (ossia sui tassi d’interesse, che impattano direttamente sul servizio del debito), semplicemente il rischio si scaricherebbe sul costo assicurativo, che potrebbe diventare altrettanto finanziariamente insostenibile per i singoli paesi.
Insomma, non solo è improbabile che i partner europei accettino questa architettura finanziaria, ma non è nemmeno detto che convegna a noi!
Se il problema è, come in effetti è, effettuare investimenti che siano scorporati dal calcolo del deficit (la cosiddetta golden rule, per evitare il rischio d’innalzamento del costo del servizio del debito) e soprattutto farlo subito, senza attendere il risultato di estenuanti negoziazioni, uno strumento esiste già: il Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici, ossia il Piano Juncker. Che in Italia, a fronte di risorse pari a 9.379 miliardi di euro, ha generato investimenti per 52.099 miliardi di euro (stando agli ultimi dati disponibili sul sito della Commissione).
Una leva straordinaria, che permette di agire sia sul lato della domanda (tramite i moltiplicatori della spesa) sia sul lato dell’offerta, trattandosi per la maggior parte di interventi volti all’adeguamento infrastrutturale ed all’innovazione.
In attesa di una radicale e profonda riforma degli strumenti e della governance dell’eurozona, spingere sul Piano Juncker ci pare, almeno nel breve periodo, la migliore strategia per perseguire la crescita; soprattutto in un contesto sempre più interdipendente come quello in cui siamo inseriti, con mercati particolarmente sensibili alla credibilità politica e finanziaria delle misure di politica economica.