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Kat’a arriva al San Carlo

Kát’a Kabanová, prima delle quattro opere dell’ultimo decennio di vita di Leoś Janáče giunge finalmente al Teatro di San Carlo a Napoli dove sarà in scena da sabato 15 a giovedì 29 dicembre. Sul podio, alla guida dell’Orchestra e del Coro (istruito da Gea Garatti Ansini) del Teatro di San Carlo, il direttore musicale Juraj Valčuha. La regia è a firma di Willy Decker, la produzione è della Staasoper di Amburgo .

“Janácek si interessava alla melodia della lingua parlata, – ci dice Valčuha – la sua era quasi un’ossessione: osservava il rapporto fra il significato delle parole e il loro suono. Quando camminava per le strade aveva sempre un taccuino su cui scriveva frasi brevi o solo alcune parole che sentiva, e insieme annotava le loro melodie e i loro ritmi. Questo gli ha fatto pensare alla musica, e specialmente alla musica vocale, in un modo molto diverso dagli altri”.

Willy Decker ambienta la storia di Katerina Kabanovà in un passato indeterminato ma non troppo lontano, in un mondo claustrofobico di lana nera e gessato. Le scene e i costumi – netti e in gran parte monocromatici – di Wolfgang Gussmann rispecchiano l’oppressione dei personaggi imprigionati in una sola stanza, di legno, grigia, scarsamente arredata, a volte aperta per rivelare il cielo che però è sempre oltre, fuori portata. Il libretto, dello stesso Janácek, ispirato al dramma di Ostrovskij Groza, mostra il vivo interesse del compositore per la cultura e la letteratura russa e una particolare attenzione per le modulazioni della lingua, con un tentativo di restituzione delle inflessioni del parlato, che rende il testo di difficile traducibilità. Emerge, inoltre, una ricercata aderenza al reale che porta il personaggio di Kát’a a imporsi come emblema della lotta alle stringenti convenzioni imposte dalla società, pagando con la vita il prezzo di un’agognata indipendenza.

L’idea di mettere in musica un testo carico di forte realismo psicologico arriva al compositore e librettista ceco su suggerimento di Václav Jirikovskij, direttore del teatro di Brno, dove avvenne la prima rappresentazione nel 1921, ma è soprattutto dettata dalla sua esperienza biografica, dal momento il personaggio di Kát’a è disegnato su modello dell’amata Kamila Stösslová. Lo stesso Janácek scrisse in una lettera a lei indirizzata: “ho incominciato a comporre una nuova opera. La protagonista è una donna, di carattere molto mite […] basterebbe un colpo di vento a trasportarla via, per non parlare della tempesta che si riversa su di lei”.

Lo scenario nel quale ha luogo la vicenda è marcatamente dicotomico: al tormento che affligge l’Io protagonista, corrisponde l’idillio rappresentato da una Russia immersa in “silenzio e pace”. In scena – tra gli interpreti – i soprani Pavla Vykopalová e Barbara Haveman, nei panni di Katerina Kabanová, il tenore Ludovit Ludha (Tichon Ivanyč Kabanov), il contralto Gabriela Beňačková (Marfa Kabanová), i tenori Misha Didyk e Magnus Vigilius (Boris Grigorjevič), il basso Sergej Kovnir (Savël Dikoj), il mezzosoprano Lena Belkina (Varvara) e il baritono Boris Stepanov (Kudrjás).

Il compositore e librettista ancora oggi poco noto al pubblico italiano, nonostante sia, con Richard Strauss e Benjamin Britten, uno del maggiori autori di teatro in musica del Novecento. Nato nella cittadina di Příbor in Moravia (dove ebbe i natali anche Sigmund Freud), nel 1854, visse quasi tutta la vita a Brno, capitale di una regione allora parte dell’Impero Austro-Ungarico, ed oggi regione meridionale della Repubblica Ceca. Brno è a circa metà strada tra Vienna e Cracovia – il cuore quasi di quell’area dell’Europa centrale dove la Grande Guerra apportò i maggiori cambiamenti ai confini geografici e politici. Lì vi era il carcere dove è stato Silvio Pellico. Per decenni, Janáček fu essenzialmente un didatta e, molto religioso, compose principalmente musica dello spirito o ispirata a tradizioni locali.

A 50 anni circa, nel 1904 (quasi contemporaneamente alle prime assolute di Madama Butterfly di Puccini e di Salome di Strauss), nella sala da tè (adattata a teatro) del maggior caffè di Brno venne rappresentato il suo primo capolavoro Jenufa – oggi la città dispone di tre teatri di cui il maggiore (1.300 posti) porta il nome del compositore. La partitura di Jenufa era stata respinta dal Teatro Nazionale di Praga, dove venne rappresentata solo nel 1916 dopo forti rimaneggiamenti imposti dalla censura. Jenufa diventò un successo europeo in seguito alla rappresentazioni a Vienna nel 1918 (proprio mentre l’Impero era sul punto del tracollo), nella traduzione di Max Brod in tedesco (lingua in cui le opere di Janáček sono state eseguite per decenni, al di fuori della Moravia).

Janáček visse sino al 1928; nell’ultima fase della sua vita in un’Europa in rapida trasformazioni ebbe meritatissimi riconoscimenti (laurea honoris causa, ammissione all’Accademia Prussiana delle Arti). Per quanto, tra le «scuole» della piccola Brno, si considerasse vicino a quella musicale russa sviluppò un linguaggio modernissimo che, al di fuori dell’Europa centrale, venne compreso solamente dopo la seconda guerra mondiale, grazie a direttori come Sir Charles Mackerras , James Conlon e Jan Lothar-Koenig. Nella New York degli Anni Settanta, i lavori di Janáček trovavano casa alla New York City Opera, considerata tra lo sperimentale e il popolare, non al Metropolitan.

La fortuna Janáček in Italia è stata tardiva. Se ne eseguivano la cameristica e la Sinfonietta, ma si dovette aspettare sino al 1936 per la prima esecuzione (radiofonica) di Jenufa ed al 1941 perché La Fenice la mettesse in scena. Non che la forte carica innovativa non fosse apprezzata dagli specialisti: in un saggio del 1957, Massimo Mila ha scritto che egli stesso, Gianandrea Gavezzani e Fedele D’Amico «avevano dato l’allarme: siamo alla presenza di un grande, una specie di Mussorgskij moravo, con in più le esperienze musicali recenti, da Strauss all’espressionismo, fino ai confini della crisi atonale». Negli Anni Cinquanta, Mila ha anche detto: se Janáček fosse stato francese, oggi sarebbe importante e famoso quanto Ravel. Tuttavia, solo negli Anni Settanta, le sue opere vengono rappresentate pure al di fuori dei pochi enti lirici principali della Penisola, giungono nel circuito lombardo ed in quello emiliano-romagnolo, arrivano nei teatri siciliani. Unicamente negli Anni Ottanta e Novanta, vengono eseguite in moravo (con l’ausilio essenziale dei sopratitoli) ed in edizioni critiche .

Ci sono due aspetti caratteristici del teatro in musica di Janáček , ambedue si colgono bene in Kát’a Kabanová. In primo luogo, , come sottolinea il suo compatriota Milan Kundera (che meglio di molti di noi più apprezzare l’impasto tra vocali, consonanti e note), la coesistenza di più emozioni contraddittorie in spazi limitatissimi crea una semantica originale in cui si hanno, parallelamente, “la inattesa contiguità delle emozioni” e la “polifonia delle emozioni”. In secondo luogo, una struttura musicale fondata sull’alternanza di frammenti differenti e contradditori nello stesso movimento (nonché insistentemente reiterati come avverrà più tardi nella musica dodecafonica), con l’inserimento di abbandoni lirici unicamente in certi momenti specialmente liberatori (come nell’ultima scena  di Kát’a Kabanová anche i tempi ed i metri si alternano con frequenza insolita, rompendo con l’unità emotiva dei movimenti della musica dell’Ottocento. Ciò richiede un maestro concertatore che sappia fondere stilemi del primo Novecento con una forte carica espressionistica e stilemi della musica contemporanea , e della dodecafonia.

Le opere di Janáček sono di solito brevi (tre atti di complessivi novanta minuti, a volte messe in scena senza intervallo) e fortemente teatrali. Kát’a Kabanová tratta di un fattaccio di provincia in un paesino sul Volga: l’odio di una suocera sado-masochista e con un figlio impotente che spinge al suicidio la nuota, ragazza semplice e religiosa. Richiede un cast numeroso (molti sono meri comprimari) i cui protagonisti siano cantanti- attori che sappiano perfettamente il moravo. Janáček ha poi una distinta preferenza per i soprani drammatici, i mezzo soprani ed i tenori con un registro di centro.

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