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Come il terrorismo sta cambiando il nostro assetto costituzionale

terrorismo Angelosanto , Alli, Poliziotti al meeting di Cl

Il recente attentato di Strasburgo, città simbolo delle istituzioni europee ma anche delle rivalità che storicamente hanno lacerato l’Europa, dimostra, se ancora ve ne fosse bisogno, che nella lotta al terrorismo non si può mai abbassare la guardia.

C’è un aspetto, al di là dell’ovvia considerazione delle vite umane e dei patimenti che questi episodi provocano, che passa quasi in sordina nei dibattiti all’indomani di ogni tragedia: il terrorismo, infatti, sta cambiando le fattezze del nostro assetto costituzionale e noi non ce ne stiamo accorgendo.

La necessità di far fronte ad una minaccia eversiva ed invasiva, violenta, non localizzata ma soprattutto atipica, in quanto non identificabile in un preciso Stato-nemico, induce i governi più toccati dal fenomeno a potenziare le istanze securitarie a scapito di quelle libertarie. Dal tragico 11 settembre fino ad oggi, le istituzioni democratiche di vari paesi sono state duramente messe alla prova. Gli strumenti tradizionali, ci si chiede, sono ancora efficaci nel garantire la sicurezza e il benessere della collettività?

Bisogna, infatti, contrastare i foreign fighters, sgominare le cellule dormienti, i lupi solitari o i terroristi fai da te. Riabilitare coloro che si sono radicalizzati nelle prigioni o gli immigrati di seconda o terza generazione addestrati alla jihad dai predicatori sul Web, che gradualmente cominciano a professare sentimenti di odio e di rivalsa verso lo Stato che li ha ospitati. Concittadini o stranieri non integrati che da un giorno all’altro mettono un niqab e decidono di “punire i miscredenti”, come la prima jihadista italiana Maria Giulia Sergio, detta poi Fatima Az Zahra e probabilmente morta nelle steppe del Califfato.

Nonostante gli sforzi dell’intelligence e la cooperazione fra gli Stati, le recrudescenze del fenomeno terroristico globale restano una realtà. E così i governi sono sempre più spesso costretti a predisporre misure di prevenzione e di repressione maggiormente severe. Il pacchetto terrorismo del 2015, le aggiunte del 2016 e da ultimo il Decreto Sicurezza vanno certamente in questa direzione.

Ebbene, la dirompenza del terrorismo, soprattutto quello di matrice islamica, rischia di indurre uno Stato democratico a comprimere o limitare quelle libertà e diritti che si pongono a fondamento della democraticità dello Stato stesso. Una contraddizione in termini, visto che quest’ultimo, per debellare un nemico nato con l’obiettivo di sovvertire l’organizzazione giuridica statuale cd. di tipo occidentale, si trova a dover rinnegare la propria stessa essenza. Quando lo Stato pone in essere restrizioni ai diritti non solo dei sospettati e dei colpevoli, ma a carico di tutti i cittadini, che si trovano così a vivere in un necessitato regime di polizia, non fa altro che il gioco di quell’imam che dall’Oriente parla in una webcam auspicando l’autoritarismo nel nome della sharia.

Si può trovare una giustificazione a quest’inevitabile deriva securitaria? Siamo di certo su di un pendio scivoloso. Molti teorici hanno ultimamente rispolverato le antiche teorie dello stato d’eccezione: in pratica, l’esistenza accertata di un estremo pericolo, di un conflitto, di una gravissima crisi o calamità fa sorgere nello Stato una situazione di “necessità” o “eccezione” tale da giustificare alcuni interventi limitativi dei diritti e delle libertà. Un teorema, per capirci, che ha sorretto la signoria di fatto statunitense sui prigionieri di Guantanamo. Durante lo stato d’eccezione, il governo può muoversi a briglie sciolte sino a che la situazione di crisi non si sia definitivamente chiusa.

Si tratta di una tendenza, frutto dell’evoluzione dei tempi, che implica un profondo mutamento della realtà costituzionale. Quale sarà, dunque, la sorte delle leggi d’eccezione che limitano le libertà, quando la minaccia non sarà più attuale? Razionalmente, dovrebbe potersi immaginare una riespansione dei diritti, un “ritorno alla normalità”. Ma l’idea che la minaccia del terrorismo possa un giorno “finire” non è al momento persuasiva: potrebbero volerci anni, decenni o forse potrebbe diventare, come sembra assai probabile, una costante nelle relazioni internazionali. E così, quello stato d’eccezione il cui principale attributo era la temporaneità, diventa a tempo indeterminato. Si trasfigura, quasi, per adattarsi a questa realtà storico-politica inafferrabile e in continua mutevolezza. Diventa uno “stato di paura”, frutto di un’inedita mescolanza fra norme in tempo di pace e norme in tempo di guerra. Il bene protetto, per ora, non è più la libertà ma l’incolumità. Tocca farci l’abitudine.

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