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Cosa manca a Roma (e non solo) per una gestione dei rifiuti sostenibile

Dopo l’incendio che ha distrutto l’impianto di trattamento meccanico biologico (Tmb) di via Salaria, a Roma l’emergenza della raccolta rifiuti torna in primo piano. Il problema è dove smaltire le 650 tonnellate di immondizia indifferenziata che proprio lì ogni giorno venivano trattate. Oltretutto in uno dei periodi peggiori, le feste di Natale, quando la produzione di rifiuti aumenta.

Formiche.net ne ha parlato con il professor Francesco Bruno, docente di diritto ambientale e alimentare presso l’Università Campus Bio-Medico di Roma e avvocato dello studio legale internazionale Pavia e Ansaldo.

Pochi giorni fa il ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, aveva dichiarato in un’intervista: “Il Tmb là non si può lasciare nelle condizioni attuali”. Cosa è successo? 

Non era prevedibile. Sembrerebbe che si tratti di dolo o sabotaggio, quindi qualsiasi impianto sarebbe (ed è) a rischio in questi casi. La considerazione sull’impianto di via Salaria fatta dal ministro era riferita (immagino) alla localizzazione, troppo vicina alle residenze e alla città, non all’attività tecnica di gestione dei rifiuti lì esercitata.

Come funziona l’impianto per il trattamento meccanico biologico dei rifiuti?

È un impianto che tratta i rifiuti urbani indifferenziati e quindi, nella logica dell’economia circolare, destinato a essere sostituito da differente tecnologia. Divide i rifiuti urbani in umido e secco. La parte umida viene trasformata in materiale organico, che va in discarica o è utilizzata per alcuni usi ammessi dalla legge. La parte secca (carta, plastica, ecc.) diviene Cdr, cioè combustibile derivato dai rifiuti, destinato agli inceneritori.

Qual è la situazione della Capitale?

Sono quattro gli impianti a Roma, e sono altamente insufficienti. Tuttavia, sposterei il ragionamento. La gerarchia in merito alla gestione dei rifiuti introdotta dal Codice dell’ambiente (il d.lgs. n. 152/2006, che attua il diritto europeo) è molto chiara: a) prevenzione; b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio; d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; infine, e) smaltimento. Gerarchia che assume carattere prescrittivo per i vari Stati membri e non solo indicativo (e da qui le condanne, anche recenti, dell’Italia). A Roma ci siamo fermati alla lettera e) (lo smaltimento) e qualcosa (ma poco) è stato fatto in riferimento alla lettera d) (ossia al recupero). Al contrario, i territori “avanzati” puntano tutto sulla prevenzione, il riciclaggio e il recupero. Qui occorre una svolta.

A che punto è l’Italia rispetto agli altri paesi europei?

L’Italia è ancora indietro (seppur la situazione negli ultimi anni sia consistentemente migliorata). Negli ultimi documenti delle istituzioni comunitarie si evidenzia la forte disparità tra i vari Stati membri nella gestione dei rifiuti (in alcuni Stati, quelli del nord Europa, vi è un 97 per cento di riciclo e/o recupero) e si intravedono due linee di intervento. Una di tipo privatistico, cioè che incide direttamente sui soggetti produttori, e che riguarda imposte e/o divieti sulle discariche e sull’incenerimento. I sistemi di “paga quanto butti” si sono rivelati molto efficienti nel prevenire la produzione di rifiuti e incoraggiare i cittadini a partecipare alla raccolta differenziata, fondamentale in una logica di bioeconomia e di produzione di energia “pulita”.
In secondo luogo, è previsto un meccanismo di programmazione di gestione dei rifiuti a livello comunitario. In altre parole, si inciderà in modo rilevante sulla programmazione dei Paesi membri. La programmazione dovrebbe tener conto anche delle condizioni geo-morfologiche dei vari territori. In altre parole, in attuazione del principio di sussidiarietà, potrebbe esserci un piano dei rifiuti europeo che dovrebbe (almeno nelle intenzioni delle istituzioni europee) aiutare gli Stati ancora indietro nelle corrette procedure gestionali. Peraltro, la Commissione sta inserendo la “buona gestione dei rifiuti” fra le condizioni per l’ottenimento di determinati fondi europei.

Basterà?

Penso sia un problema culturale, più che di (possibile) approccio normativo. È necessario, con equilibrio, indirizzare il nostro sistema produttivo nazionale verso uno sviluppo sostenibile: mancata sostenibilità si integra con mancata crescita (economica e non). Tuttavia, è mio convincimento che le imprese stiano andando nella giusta direzione. Il problema è che non sono aiutate dal contesto sociale e amministrativo.

Alla Cop24 si tratta in queste ore per rendere operativo l’accordo di Parigi. Cosa ne pensa del pugno duro di Trump?

I cambiamenti climatici sono evidenti. C’è chi li collega alla attività antropica e chi no, ma ritengo che l’amministrazione statunitense abbia cambiato rotta sugli accordi di Parigi per motivi differenti, ossia ragionando sui ridotti benefici economici per i Paesi industrializzati (che comunque oramai le prescrizioni ambientali le hanno introdotte) e gli ingenti finanziamenti indirizzati in quell’accordo ai Paesi in via di sviluppo. Non penso sia stata una scelta ideologica, ma fortemente pragmatica. Per verificare se sia stata giusta o meno dovremo aspettare decenni.

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