Mentre il presidente Donald Trump fa (come spesso accade) fonte aperta su stesso, annunciando la sostituzione, a febbraio, del capo del Pentagono, James Mattis, la Reuters ha forse la notizia più interessante riguardo al ritiro delle forze speciali americane che stanno combattendo lo Stato islamico in Siria (forse la goccia che ha fatto traboccare il vaso di Mattis, che alla decisione s’è opposto più volte). Fonti dell’agenzia tra gli americani dicono che gli Stati Uniti, come parte del ritiro, potrebbero interrompere tutte le attività aeree sul territorio siriano.
È questo l’aspetto nuovo — sebbene ancora la decisione definitiva ancora non c’è, spiegano le fonti dell’agenzia — di un qualcosa che in realtà è in discussione da mesi: il ritiro dei militari a terra è una volontà trumpiana vecchia anni (fin dai tempi della campagna elettorale), completamente aderente alla linea del presidente americano — e pure la contrarietà del Pentagono al ritiro “completo e immediato”, anche se ancora non se ne conoscono i tempi, non è una novità. Ma lo stop anche alla copertura aerea della missione anti-IS significherebbe che l’amministrazione Trump rinuncerebbe alla più grossa componente della lotta al Califfato, quella attraverso cui ha eliminato pezzo per pezzo tutta la colonna vertebrale del gruppo, individuando e tracciando i componenti dell’organigramma al comando. Droni, voli di intelligence e attacchi mirati, che hanno permesso alla Coalizione internazionale che ha arginato la dittatura baghdadista una decapitazione chirurgica dei leader, limitando come mai prima nella storia i danni collaterali tra i civili.
Un sistema altamente tecnologico, ormai testato da almeno quattro anni, che ha disarticolato la dimensione statuale di Abu Bakr al Baghdadi, abbinato al lavoro fatto a terra da quelle forze speciali (di cui si annuncia la ritirata) in accoppiata con le forze curdo-arabe e irachene, ha trasformato il territorio conquistato dal Califfo — un tempo grande come il Belgio a cavallo del Siraq — in una striscia di desolata lungo l’Eufrare. Sebbene ancora pericolosa. Le forze speciali hanno condotto blitz su obiettivi di alto livello, ucciso o catturati, e hanno dato coraggio e peso politico alle milizie curdo-arabe concentrate contro Baghdadi (su cui, secondo informazioni non verificabili, “si sta stringendo il cerchio”).
Un meccanismo di cui hanno usufruito anche gli alleati Usa, come i francesi per esempio, che — grazie alla super tecnologia schierata dalle forze occidentali contro il medioevo baghdadista — hanno potuto eliminare discretamente, uno a uno, tutti i responsabili del 13 novembre parigino. Ora sono proprio i francesi, che un tempo vantavano la miglior intelligence in Siria e che poi hanno perso contatti con un terreno diventato covo logistico-ideologico dei terroristi islamici che hanno colpito l’Europa, ad alzare l’allarme.
“Daesh è più indebolito che mai. Daesh è andato sottoterra e in modalità insurrezione nel suo modo di combattere. Daesh ha perso più del 90 per cento del suo territorio. Daesh non ha più alcuna logistica di quelle che aveva”, ricorda la ministra degli Esteri, Florence Parly usando l’acronimo dispregiativo arabo dello Stato islamico (Daesh, Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāqi wa sh-Shām). Però la dichiarazione da Parigi, sebbene apparentemente sembri seguire la linea Trump — il presidente americano ha detto di aver sconfitto l’IS e per questo non aver più ragione di restare in Siria — nasconde appunto un “però”: “Occorre sconfiggere militarmente le ultime sacche di questa organizzazione terroristica”, cancellarlo del tutto dalla mappa non ne estirpa le radici, ha detto Parly.
Quattro mesi fa il Pentagono diceva che tra Siria e Iraq ci sono ancora tremila baghdadisti: e infatti non è un caso che durante la settimana precedente ci siano stati qualcosa come duecento attacchi aerei americani contro i jihadisti. E anche per questo la Francia, insieme agli inglesi e per vie traverse gli israeliani, sono stati i primi alleati americani ad alzare il livello di attenzione. Critiche avanzate anche dall’interno degli Stati Uniti: a poche ore dalle prime news sul ritiro, il New York Times ha ospitato un op-ed in cui due senior director dell’antiterrorismo americano, Joshua Geltzer e Christopher Costa, operativi sia sotto l’amministrazione attuale che con la precedente, hanno scritto che “l’ISIS non è stato sconfitto […] non riuscendo a farlo può rivelarsi mortale […] non è il momento di terminare la missione, perché ci troviamo di fronte a un avversario risorgente”.
Ieri sono circolate su alcuni canali usati dai jihadisti immagini che danno il senso di queste parole: il Foglio ha pubblicato in anteprima la notizia che gli assassini delle due turiste nord-europee in Marocco avevano registrato un video di giuramento all’IS, oltre che un altro della decapitazione di una di loro. Baya califfali — il modo con cui i predicatori dello Stato islamico avevano chiesto di dedicare al Califfo le azioni terroristiche dei proseliti, in modo da poter intestarsene il patrocinio ispiratore e il successo dell’atto in sé — era da qualche tempo che non circolavano e sono una testimonianza che l’IS è un nemico non ancora sconfitto.
“C’erano i curdi, partner eccellenti sul campo, con cui era stato messo in piedi un sistema ibrido funzionante”, ci dice con discrezione una fonte dagli ambienti militari riferendosi a quel mix devastante di raid aerei mirati e missioni con cui gli specialisti occidentali hanno guidato i partner locali fino alla roccaforte siriana di Raqqa, riconquistata l’anno scorso. “Ma ora i curdi ai sentono come traditi, e temono che il ritiro americano possa aprire le porte a una missione turca contro di loro (la Turchia li considera terroristi, perché sono alleati del Pkk e da tempo scalpita per sottrargli quei territori riconquistati al Califfo sul confine siriano. Ndr)”. Il punto, ci spiega la nostra fonte con discrezione, riguarda il futuro: “Troveremo altri partner locali in grado di fidarsi se ci sarà bisogno di altre iniziative simili a quella contro l’ISIS?”.
Intanto arrivano anche conferme sulle voci secondo cui nei prossimi giorni i due co-leader del Syrian Democratic Council, la componente politica delle Sdf — le milizie curde arabe col nome molto politico di Syrian Democratic Force — saranno all’Eliseo dal presidente Emmanuel Macron, che ha garantito protezione internazionale al gruppo e la continuazione in partnership della guerra ai terroristi dell’IS.