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Trump chiama Mulvaney. Ma per il nuovo capo gabinetto (provvisorio) non sarà semplice

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Il presidente americano, Donald Trump, ha nominato il consigliere Mick Mulvaney capo dello staff provvisorio della Casa Bianca. Mulvaney è stato finora il consulente per il budget della presidenza, e avrà l’incarico in in attesa della nomina definitiva del sostituto di John Kelly, ex generale dei Marines che dallo scorso anno aveva avuto l’incarico di capo di gabinetto.

Kelly lascerà a fine anno la posizione che all’interno dell’amministrazione americana è considerata di primissima importanza, perché è il punto di contatto tra la Casa Bianca e le altre branche dell’amministrazione (il capo dello staff è più influente del vicepresidente, e dal punto di vista politico e amministrativo ha più potere dei vari segretari).

Con Trump, però, questo ruolo ambitissimo è diventato uno dei posti di lavoro più critici. Il presidente ha già licenziato, annunciandolo prima via Twitter e poi in forma personale al diretto interessato, il primo dei suoi capi dello staff, Reince Priebus, un ex segretario del Partito Repubblicano (è una semplificazione, perché negli Stati Uniti non esiste un ruolo da segretario effettivo, ndr) molto apprezzato dalla leadership conservatrice.

Priebus era considerato non in grado di gestire l’irruenza rivoluzionaria con cui Trump conduceva la sua azione di governo e la sua presenza alla Casa Bianca, mentre l’incarico successivo, affidato al generale Kelly, era sembrato un tentativo di mettere ordine tra i corridoi più vicini allo Studio Ovale. L’ufficiale aveva iniziato a muoversi nel suo ruolo come faceva tra i Marines che comandava, e questo lo aveva portato a dare un ordine organizzativo al 1600 di Pennsylvania Avenue.

Molto apprezzato era stato innanzitutto il filtraggio con cui aveva costruito un muro di protezione a difesa del presidente, evitando che chiunque entrasse alla Casa Bianca potesse accedere, anche senza appuntamento, nello Studio Ovale e parlare con Trump (tra questi, particolarmente problematica era la presenza improvvisa di vecchi amici di Trump che lo consigliavano su tutto e contro tutti dandogli spesso opinioni istintive e sgangherate, che talvolta hanno influenzato la decisione presidenziale).

Dopo aver goduto di una fase di apprezzamento, soprattutto tra coloro che cercavano di normalizzare la presidenza Trump, Kelly però da tempo era entrato in rotta di collisione col presidente. Il suo licenziamento, negli ultimi mesi, era stato dato per certo più volte, e il generale stesso aveva espresso in forma riservata la sua frustrazione (velocemente passata dalla stampa e dunque diventata pubblica). Kelly aveva chiesto al presidente di non fare la fine di Priebus – che ha saputo del licenziamento via Twitter mentre si stava accomodando in un mezzo della motorcade presidenziale. Lo chiedeva per il minimo di rispetto che la sua carriera avrebbe meritato, ma niente: prima che potesse dirlo lui, Trump ha anticipato il licenziamento, di nuovo con un tweet.

Nei giorni scorsi, il presidente ha visto colui che da tempo veniva considerato come il designato successore del generale, Nick Ayers, che attualmente è capo dello staff del vicepresidente Mike Pence. Solo che Ayers ha rifiutato l’incarico, ha citato ragioni famigliari: negli States ci credono in pochi, anche perché la stessa motivazione l’hanno usata in altri due, chiamati come scelte di riserva dopo il no di Ayers: l’ex senatore della Pennsylvania Rick Santorum e l’ex governatore del New Jersey Chris Christie. Il ritiro, con conseguente licenziamento dal lavoro per Pence, è stato una mossa straordinaria visto che, nell’ambito di una carriera politica che un trentaseienne come Ayers si trova davanti, l’incarico di Chief of Staff della Casa Bianca avrebbe potuto rappresentare uno scatto in avanti portentoso.

Probabile che Ayers abbia pensato ai due anni molto complessi davanti a sé, con il presidente in rincorsa per il secondo mandato, sotto in maggioranza alla Camera (con diversi grattacapi potenzialmente alle porte): dunque un Trump in grado di farne di ogni. Ayers per questo potrebbe aver preferito saltare un giro, pensando che – ribaltamento storico, per certi versi – nel 2019 (e fino al 2020, obiettivo fissato già per Kelly, in realtà) essere capo dello staff del presidente Trump potesse rappresentare un problema per la sua carriera, più che un vanto.

Quel ruolo ambitissimo è diventato un ostacolo da evitare? Trump ha risposto in anticipo a questa domanda subdola che serpeggia dicendo di avere molti nomi di gente che vorrebbe essere capo dello staff — chiaramente.

Non è chiaro quanto Mulvaney restarà nel ruolo: per il momento è “acting”, ossia facente funzione, in attesa di altra nomina. Trump sta faticando a trovare il suo funzionario numero uno, ma allo stesso tempo ha la necessità che qualcuno traghetti le cose in questi giorni e che all’inizio dell’anno nuovo sia pronto all’incarico, visto che da tempo – dicono le fonti interne ai media americani – non parla più con Kelly.

Tuttavia la scelta di Mulvaney viene anche considerata funzionale: l’attuale direttore dell’Omb, acronimo di Office of management and budget, non lascerà il suo incarico precedente, che però nella quotidianità sarà curato dal suo vice. Mulvaney era un congressista del South Carolina e ha ottimi rapporti e connessioni a Capitol Hill — cosa che a Trump serve, non avendone di personali.  Inoltre gode di un ottimo rapporto d’amicizia col presidente, che è una caratteristica fondamentale (forse più di ogni altra) per lavorare col presidente.

Mulvaney è uno dei pochi dell’amministrazione che condivide con Trump il suo passatempo preferito/ il golf, e Trump dice che è pure bravo. Secondo il Washington Post i due vanno piuttosto d’accordo sul lavoro perché Mulvaney, nei briefing nello Studio Ovale, gli presenta sempre le cose, seppur complicate, sotto forma di colorate infografiche riassuntive.

Intanto oggi Trump ha annunciato un’altra defezione dalla squadra amministrativa: entro fine anno lascerà il posto Ryan Zinke, segretario agli Interni, finito in mezzo a un paio di casi giudiziari e considerato l’annello debole dell’amministrazione, contro cui i democratici, dalla Camera, avrebbero potuto lanciare inchieste congressuali.

 

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