In una dichiarazione congiunta firmata da tutte le nazioni del G20, sabato, i leader dei venti Paesi più industrializzati e potenti del mondo hanno riconosciuto che l’attuale sistema multilaterale di negoziazione “non è all’altezza dei suoi obiettivi” ed espresso il sostegno alla “necessaria riforma” dell’Organizzazione mondiale del commercio, più nota con l’acronimo inglese Wto.
È questo il principale “grande successo per gli Stati Uniti” di cui il presidente Donald Trump ha parlato in un tweet. La presidenza Trump ha reso il ribilanciamento degli squilibri commerciali un segno distintivo della sua azione politica (è un segno di una strategia politica molto profonda, quella del ritiro, con cui Trump intende restituire sovranità ai suoi partner sollevando un po’ del peso imperialista americano che storicamente proprio con gli squilibri commerciali è stato alleviato).
Per il presidente americano, la dichiarazione sulla necessaria riforma del Wto — da cui tempo fa, con quella che più che altro era una provocazione, ha minacciato di ritirarsi perché “progettato dal resto del mondo per rovinare gli Stati Uniti”, parole sue — è una vittoria politica internazionale. Con gli altri leader restano ancora divisioni su diversi temi, soprattutto sul clima (gli altri diciannove hanno deciso per implementare l’accordo di Parigi, da cui invece Trump ha annunciato di volersi ritirare), ma Washington ha spostato l’attenzione sul fronte economico-commerciale (e ciò che ne consegue), trovando la comune condivisione dei problemi.
Nells serata conclusiva del G20 s’è svolto anche l’atteso incontro tra Trump e il presidente cinese Xi Jinping, che s’è chiuso con qualche segnale di distensione, seppure a breve scadenza. Il confronto tra Washington e Pechino è “una Roma-Cartagine con molte tregue” spiegava su queste colonne Carlo Pelanda: come previsto dal professore di geopolitica economica della Guglielmo Marconi di Roma, ci troviamo davanti a una di queste tregue.
L’americano ha deciso di congelare per adesso l’incremento del regime di dazi imposto alla Cina. Era previsto per il primo gennaio del nuovo anno un aumento delle tariffe, “molto sostanziale” (portarle tutte al 25 per cento), ma il limitato e momentaneo freno servirà a riaprire i tavoli di confronto. Trump vuole successi sul campo economico commerciale, e lì sta giocando in questa fase le sue carte di uno scontro che resta a 360 gradi tra le due più grandi potenze del mondo. Anche se sa che l’accordo parziale raggiunto dopo la cena con Xi al G20 altro non è che un remake di altri precedenti, poi saltati perché considerati non produttivi proprio da Washington.
“È un grande onore per me lavorare con Xi”, ha detto in uno statement diffuso dall’Air Force One durante il viaggio di ritorno dall’Argentina (negli incontri tra i due leader gioca un ruolo anche la personalità di entrambi). Ed è un messaggio chiaro: nell’ambito multilaterale del G20, la riunione più importante, per Trump, è stata quella bilaterale con la Cina. Pieno stile trumpiano, dove si preferisce l’approccio diretto, il bilateralismo, ai tavoli (“globalisti”) più ampi — anche per questo, dalla cena con Xi, Trump doveva uscire con una qualche tregua, con qualcosa di produttivo.
Trump però non ha abbandonato la linea dura contro la Cina, al di là del bon ton attorno all’incontro, e non c’è esempio migliore di questo atteggiamento se non la tregua in sé. Il rialzo dei dazi è stato semplicemente bloccato, ma soltanto per 90 giorni: una deadline di soli tre mesi con cui Trump vuole costringere i cinesi a cedere sul mercato, ma anche su altre faccende collegate — forse anche dal maggiore valore strategico — come quelle legate alla corsa tecnologica e al furto di proprietà intellettuale, e poi smuovere la Cina (a fare di più) sul dossier nordcoreano.