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Il decreto sul reddito di cittadinanza e quota 100 non sarà un inno alla gioia

Finalmente il grande giorno è arrivato. Habemus decreto su Reddito di cittadinanza e quota 100. I giorni della concitazione, dei contrasti più o meno mascherati e dei rinvii, con gli esponenti della maggioranza sospesi sull’orlo di una crisi di nervi, sono finiti. Manifestazioni di giubilo contenuti. Nessun balcone aperto su Piazza Colonna, per proclamare al mondo la definitiva sconfitta della povertà. L’esperienza passata, con la Commissione europea che impone la riscrittura del progetto che rappresentava il cuore della manovra del popolo, ha fatto scuola.

Del decreto non si dispone ancora la Relazione tecnica, essenziale per capirne l’effettiva portata. Costretti, allora, a misurarsi con il labirinto di una normativa che dice molto, ma spiega poco. Non tanto per quanto riguarda quota 100. Settore in cui esiste da tempo una legislazione consolidata. Per cui l’unico problema è capire quale sarà il costo effettivo dell’operazione. Che deriverà, naturalmente, da quanti sceglieranno il pensionamento anticipato. Di fronte a questa prospettiva l’Inps, non ha difese. Monito del presidente Tito Boeri. Si tratta, infatti, del riconoscimento di un “diritto soggettivo” che, una volta concesso, non può essere negato dall’eventuale mancanza di risorse. Le relative prestazioni andranno comunque erogate. E se non ci sono i soldi, si dovrà provvedere in deficit.

Più complicato il caso del reddito di cittadinanza. Le esperienze passate, ad esso in qualche modo riconducibili, non depongono a favore. Colpa soprattutto di una struttura amministrativa – non solo l’organizzazione dei Centri impiego – del tutto inadeguata. Finora, infatti, non esiste alcuna connessione a livello nazionale. L’offerta di lavoro è frammentata. Le reti di collegamento tra le singole aziende, che cercano lavoratori, ed i vecchi uffici di collocamento sono del tutto carenti, per non dire inesistenti. Basta farsi un giro in qualsiasi città e vedere gli scarsi cartelli che appaiono sulle vetrine dei negozi  “cercasi commessa” o gli annunci a pagamento sui vari quotidiani.

Se esistesse una rete, non ve ne sarebbe bisogno. Certo si può fare sempre affidamento sulla Casaleggio Associati. Ma considerati i precedenti dello “scudo” dell’Associazione Rousseau – questo è il nome ufficiale – non saremmo così tranquilli. Pesa su tutto la frammentazione delle competenze. I Centri impiego dipendono dalle Regioni. Dovranno, quindi, essere coinvolte. Operazione del terzo tipo. C’è poi da mettere in piedi un apparato di controllo che somiglia a vicino a quello delle Vite degli altri: il bel film di Florian Henckel von Donnersmarck sulla Stasi di Berlino est. Operazione più che delicata, visto che si rischiano ben 6 anni di galera, in caso di dichiarazioni mendaci. Nessuna invidia per quei 4 mila navigator che dovranno essere assunti (da chi?), a tamburo battente, per consentire l’erogazione del sussidio dal mese di aprile. In tempo per le elezioni europee.

Quisquilie: si potrebbe dire. L’importante è il messaggio che si invia. Poi ogni eventuale ritardo potrà essere giustificato, secondo il principio che più lunga è l’attesa, maggiore il piacere. Ma le cose della vita reale non funzionano in questo modo. Il tarlo di fondo che corrode la base del decreto non può essere eleminato. Ed esso può essere riassunto in due vistose carenze: la mancanza di risorse sostanziali e finanziarie. Cominciamo dalla prima.
Le previsioni più aggiornate, frutto della cucina di Centri studi indipendenti (Prometeia, Cer e Promotor), indicano, per l’anno in corso, un tasso di crescita dello 0,5%: esattamente la metà di quelle governative. L’aggiornamento recente è motivato dal rallentamento dell’economia internazionale, che riduce la potenza dell’unico vero motore che traina l’economia italiana: le esportazioni. Il gelo che si intravede nell’Eurozona, soprattutto in Francia e in Germania, è destinato creare forti rallentamenti nella produzione di quei beni intermedi che sono componente essenziale dell’industria europea: specie per i mezzi di trasporto. Colpiti dai dazi e dalle nuove misure antinquinamento. La Fca, dopo la super imposta sulle auto non elettriche, ha già fatto sapere che rivedrà il suo piano industriale. Giapponesi e coreani ringraziano la vocazione ambientalista di Luigi Di Maio.

Con quello striminzito tasso di crescita, la disoccupazione è destinata ad aumentare, come già si è verificato, negli ultimi mesi del 2018. Chi sarà, allora, in grado di offrire nuovi posti di lavoro? Nella sua intervista, all’indomani del varo del decreto, il capo dei 5 Stelle ha giurato e spergiurato di non voler mettere in campo misure di carattere assistenziale. Buona intenzione, che, tuttavia, fa a pugni con le più recenti tendenze della congiuntura. Qualunque siano le promesse, la realtà va in una direzione opposta. Poco male: si potrebbe aggiungere. L’obiettivo primario, il consenso elettorale, è comunque conseguito.

Ma ecco, allora, la seconda strozzatura: il problema delle risorse. Per il 2019 le somme stanziate sono pari a 6,11 miliardi, che aumentano progressivamente fino a giungere, a regime, 7,841 miliardi. Quante richieste possono essere soddisfatte? L’onere pieno pro-capite è pari 9.360 euro all’anno. La platea massima è quindi di circa 650 mila persone (6,11 miliardi diviso 9.360 euro). Considerate le eventuali deduzioni, diciamo che possono quasi raddoppiare per un totale di circa 1 milione di interessati. Non è certo poco. Ma l’idea che l’istituto possa riguardare 5 milioni di poveri, come ricordato dal presidente Giuseppe Conte, è una sciocchezza grande come una casa.

Il rischio evidente è quello di dare origine ad una sorta di guerra tra poveri, destinata a risolversi con la regola della lotteria. Prendi il biglietto fortunato e porta a casa il reddito di cittadinanza. Avrà un effetto positivo, dal punto di vista politico? O non si trasformerà in un boomerang per i nuovi apprendisti stregoni? Non rischierà, cioè, di alimentare nuove frustrazioni? Per rispondere all’interrogativo bisogna far scendere in campo la falange degli “inattivi”. Di coloro cioè che, finora, non si sono cimentati con il problema del lavoro. Un esercito di oltre 13 milioni di persone. Che faranno di fronte alla prospettiva di avere una sovvenzione statale, nella realistica presunzione che non vi sarà alcuna offerta di impiego? Non presenteranno, comunque, la domanda?

Dal 2011 in poi circa un milione e mezzo di persone, in prevalenza donne, ha abbandonato la precedente condizione di inoperosità per affacciarsi sul mercato del lavoro. La metà circa è rimasta disoccupata. Allora si tentava di cercare un lavoro, oggi si può, invece, lottare per il salario di cittadinanza. È facile prevedere che i passaggi aumenteranno in misura considerevole. Ed è allora che il gioco è destinato a complicarsi notevolmente. Cresceranno, infatti, le forme di elusione. Il che richiederà controlli più severi ed un carico burocratico destinato a produrre fenomeni d’entropia. Caos che si aggiunge al caos. Troppo pessimismo? Può darsi: staremo a vedere. Ma l’idea che l’assistenza possa sostituire lo sviluppo non ha mai funzionato. Lo si è visto nella cosiddetta esperienza storica del socialismo realizzato. La cui implosione avrebbe dovuto far meditare.

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