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C’era una volta Giulio Andreotti. Il ritratto di Massimo Franco

L’uomo di governo, il rappresentante aggiunto e permanente del Vaticano, il custode degli equilibri della Guerra Fredda. Ci sarebbero molti modi per definire, a 100 anni dalla nascita, quello che è stato probabilmente il politico più importante della storia repubblicana. Giulio Andreotti ha rappresentato tutto questo e molto di più, a cominciare dai record del suo cursus honorum: sette volte presidente del Consiglio e 26 volte ministro in oltre mezzo secolo di attività politica e nelle istituzioni. Una vicenda pubblica e personale che Formiche.net ha ricordato e ricostruito in questa conversazione con l’editorialista e notista politico del Corriere della Sera Massimo Franco, autore del libro dal titoloC’era una volta Andreotti. Ritratto di un uomo, di un’epoca e di un Paese“, edito da Solferino (in edicola con il Corriere e in libreria).

COPERTINA LIBRO ANDREOTTIAndreotti è l’emblema della complessità e delle contraddizioni italiane: se dovessi raccontarlo in poche parole, soprattutto ai più giovani, lo farei in questo modo“, ha esordito Franco. Che poi ha spiegato: “Ha riflesso pienamente il secolo in cui ha vissuto, che vuol dire un’Italia immersa nella Guerra Fredda di cui è stato in qualche modo il custode. Una sorta di uomo del purgatorio italiano, al confine tra l’inferno comunista e il paradiso occidentale“. Un mondo diviso in blocchi contrapposti – quello emerso dalla fine della Seconda guerra mondiale – di cui Andreotti ha rappresentato per il nostro Paese una specie di garante, sia all’interno che all’esterno: “Sapeva bene che esisteva questa divisione sostanziale determinata e nell’ambito di questo equilibrio si muoveva con grande abilità e spregiudicatezza“. Quando però quel mondo è finito, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989, la sua epopea – e quella della Democrazia cristiana, cui fu iscritto fin dai primi anni ’40 del secolo scorso – ha iniziato a volgere al termine: “In quel momento iniziò a perdere le coordinate nazionali e internazionali. Nel mondo multipolare di oggi, con alleanze molto più labili che in passato, Andreotti si troverebbe spaesato. In realtà, quando disse che amava così tanto la Germania che sperava ne rimanessero due – una delle sue fulminanti battute – , rivelò anche di essere consapevole di un suo limite: sapeva che con la riunificazione tedesca sarebbe stato più difficile governare e capire il mondo. Anche per un fuoriclasse come lui“. In quegli anni tutto cambiò rapidamente: l’Italia, l’equilibrio geopolitico mondiale e in fondo – ha sottolineato Franco – “pure il Vaticano, di cui è sempre stato un esponente quasi organico“.

L’ALBUM DEI RICORDI DI GIULIO ANDREOTTI. LE FOTO DELL’ARCHIVIO PIZZI

Il rapporto strettissimo con la Santa Sede – che Andreotti ha sempre intrattenuto, dai tempi dell’università fino alla vecchiaia – rimane una delle lenti principali attraverso cui leggere la sua vicenda politica e, insieme, anche un pezzo fondamentale della recente storia italiana: “Dobbiamo ricordarci che era stato presidente della Fuci, la federazione universitaria dell’Azione cattolica. Ed aveva avuto fin da giovanissimo rapporti sia con il futuro papa Paolo VI Giovanbattista Montini, che aveva ricoperto il ruolo di assistente ecclesiastico della stessa Fuci – sia con Pio XII, di cui Andreotti era, se non un amico, di certo un interlocutore costante e privilegiato quando era molto giovane“. Ma allora cosa ha rappresentato la Santa Sede per Andreotti e viceversa? Secondo Franco, la strada da seguire in tal senso è quella tracciata da Francesco Cossiga che lo definiva “il segretario di Stato permanente del Vaticano“. “I governanti di tutto il mondo di fatto gli riconoscevano un doppio ruolo: di rappresentante dell’Italia e della Santa Sede“, ha sottolineato l’editorialista del Corriere. Che poi ha aggiunto: “Tutto ciò naturalmente gli dava una forza vistosa – che Andreotti gestiva però in modo molto discreto – e soprattutto mostrava un’Italia non provinciale, in grado di guardare al mondo e non soltanto al suo interno“.

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Un uomo di Stato o forse, per meglio dire – come ha affermato Franco – “un grande uomo di governo, come conferma il fatto che il suo potere fosse nettamente maggiore nei ministeri e all’esterno, che non dentro la Democrazia cristiana. Aveva un grande senso dell’amministrazione dello Stato e della conservazione del sistema“. Della cui tenuta e del cui equilibrio – ha sottolineato Franco – Andreotti si è sempre preoccupato: “Si batteva perché il sistema non slittasse verso il comunismo ma pure affinché non vi fosse alcun ritorno al fascismo. Il suo nemico ideologico era il Pci ma sapeva che la vera competizione per la Democrazia cristiana sarebbe stata prima o poi con la destra, per quell’elettorato moderato che lui rappresentava e teneva a bada. Quello che poi è accaduto nel 1994 dopo la fine della Guerra Fredda“.

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Una carriera senza precedenti, la sua, nella quale ha conosciuto le luci del successo, ma anche la polvere delle aule dei tribunali e delle accuse più infamanti, come ci ricordano pure alcune polemiche di questi giorni: “Intanto Andreotti non è stato condannato né nei processi per mafia né in quello per l’omicidio di Mino Pecorelli. Dopodiché c’è stata una sentenza che definirei purgatoriale a Palermo, con una prescrizione per un certo periodo e con un’assoluzione per quello successivo“. Ma è in generale la natura del dibattito che in alcuni casi sembra volersi tenere su Andreotti a essere fallata secondo Franco: “Questa discussione è diventata un po’ stucchevole, anche da parte dei magistrati. Bisognerebbe riconoscere che il tentativo di incasellare in modo penale l’esperienza di Andreotti e della Dc si è rilevato una forzatura. Leggere la storia dell’Italia democristiana come una storia criminale è fortemente sbagliato e fuorviante. Si è cercato di tradurre in termini processuali una contraddizione e una complessità italiane di cui Andreotti è stato l’emblema ma che, a mio avviso, non deve offuscare quanto di buono – e di meno buono – Andreotti ha rappresentato politicamente“. Una narrazione cui non dovrebbero credere soprattutto i più giovani: “I ragazzi dovrebbero capire che una storia manichea dell’Italia – nella quale ci sono i buoni e i cattivi – è fuorviante e semplicistica. Perché additare Andreotti e il suo mondo come il male assoluto vuol dire non solo travisare la storia del dopoguerra nel nostro Paese ma anche rifiutarsi di esaminare e comprendere la complessità italiana“.

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Ma è giusto, come fa qualcuno, guardare ai tempi di Andreotti con un pizzico di nostalgia? Non necessariamente per gli esponenti politici di allora ma almeno per un Paese comunque in grado di ritagliarsi un ruolo di primo piano nel mondo e di garantire benessere e crescita ai suoi cittadini: “Sicuramente mancano la competenza e la preparazione di quella classe politica, non solo democristiana ma di tutti i partiti. Ma questo non può essere tradotto puramente in nostalgia: quella era una classe politica plasmata dalla Guerra Fredda che però non è stata in grado di affrontare la sua fine ed è stata spazzata via perché impreparata a gestirne il dopo. E poi credo che il termine nostalgia nasca più dalla delusione verso il presente che da una visione lucida del passato. Tra l’altro, soprattutto gli ultimi governi della Prima repubblica sono quelli che hanno prodotto il grande debito pubblico italiano con cui siamo ancora alle prese“.

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Impossibili, ovviamente, i paragoni con i politici di oggi: tutto, troppo, è cambiato. Semmai viene da chiedersi cosa potrebbero imparare da Andreotti soprattutto i due leader dell’attuale maggioranza gialloverde, Matteo Salvini e Luigi Di Maio: “Intanto dovrebbero studiare di più – avere maggiore preparazione sui dossier che gli vengono sottoposti – e parlare di meno. Secondo, a mio avviso, dovrebbero avere maggiore umiltà e cercare di non risolvere il rapporto con la storia d’Italia demonizzandola, come se fosse cominciata con loro. Queste sono le premesse di una politica molto effimera. Ci sono stati altri esempi, anche recentemente: essere giovani non è una garanzia di longevità e questo, forse, dovrebbero ricordarselo“. E Andreotti, invece, cosa ne avrebbe pensato della politica e dei politici di oggi? “Difficile dirlo, mi limito a ricordare che il maggior rimprovero che faceva a Silvio Berlusconi era di aver trasmesso il Grande Fratello perché riteneva che fosse una corruzione della cultura televisiva italiana. Dico solo che oggi a Palazzo Chigi il portavoce del presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è Rocco Casalino, uno dei concorrenti del primo Grande Fratello“.

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Ma com’era Andreotti di persona? “Lo conobbi nel 1989: molto cordiale ma teneva anche le distanze. Quando gli davi la mano, aveva una stretta forte ma poi di colpo si staccava, come se ti facesse capire che si trattava di una cordialità in qualche modo d’ufficio. Era un pessimista, aveva un’idea molto disincantata della natura umana: era abituato a vedere di tutto e il suo modo per stemperare il suo pessimismo era l’ironia. Si capiva che aveva una conoscenza profonda di tante cose: a volte la metteva a servizio del buon governo, altre solo per i suoi obiettivi di potere personale”. E il famoso archivio segreto di Andreotti? Quante sono le verità che non ha mai svelato? “Probabilmente numerose. D’altronde qualunque uomo di potere, e lui lo è stato per più di mezzo secolo, ha una sfera di segreto che non rivela. Figuriamoci poi un tipo come Andreotti, il quale diceva che se non vuoi che si sappia una cosa non devi dirla neanche a te stesso. Una concezione del segreto quasi parossistica“. E che gli è valsa anche alcuni dei numerosi soprannomi che nel corso dei decenni gli sono stati affibbiati: “Tutti questi nomignoli sono solo frammenti. In realtà il soprannome migliore sarebbe stato una somma di tutti questi perché era una personalità molto complessa: e quindi c’era sia Belzebù che il Divo Giulio. E sicuramente c’era anche un Andreotti privato, che conoscono bene solo i figli e i nipoti, molto più umano di quanto noi possiamo immaginare“.

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