Skip to main content

DISPONIBILI GLI ULTIMI NUMERI DELLE NOSTRE RIVISTE.

 

ultima rivista formiche
ultima rivista airpress

Perché l’elezione di Bolsonaro è un’occasione storica per Washington

Ieri, il neo-presidente brasiliano Jair Bolsonaro si è insediato al comando del Paese (è tradizione che la presidenza parta il giorno di Capodanno). A lui toccherà riprendere un Paese che fa parte dei Brics, ma che fatica a slanciarsi (con una disoccupazione al 12 per cento), gravato dal deficit pubblico del cosiddetto “Costo Brasile” e da una situazione di corruzione endemica che negli anni passati ha toccato le alte sfere del potere, e una delicatissima situazione di ordine pubblico (il Brasile guida la classifica mondiale degli omicidi e della diffusione di cocaina; con la seconda città del paese, Rio de Janeiro, che sta cadendo in mano a milizie territoriali sempre più fuori controllo).

Bolsonaro, ex capitano dell’esercito, promette di essere un uomo forte al comando e segue la rincorsa populista anti-establishment che ha costituito quasi una sorta di internazionale sovranista (definizione da ossimoro, che però rende l’idea per posizioni politiche che vanno dall’Europa all’America, fino all’Asia), e dà questo segnale già dalla scelta della sua squadra di governo. Dei 22 ministri (una riduzione, come promesso in campagna elettorale dai 29 precedenti, per combattere sprechi e corruzione), nove arrivano da ambienti militari, diversi sono stati compagni del presidente nei cadetti dell’accademia Black Needles, la West Point brasiliana; perfino il dicastero della Cultura andrà in mano a un professore emerito alla Scuola di comando dello Stato maggiore dell’esercito – ed è qualcosa che ricorda la sensibilità al prestigio militare dei jacksoniani americani come Donald Trump.

Trump, appunto, è uno dei temi della presidenza Bolsonaro, che non a caso viene chiamato “Trump of the Tropics” (in Brasile, il presidente che ha ricevuto l’endorsement dal non-non/trumpiano Wall Street Journal, è considerato una figura controversa per via di uscite razziste, sessiste e nostalgiche della dittatura militare, ma la gente lo spinge). Ieri, dopo il discorso inaugurale – davanti al segretario di Stato americano, Mike Pompeo, volato alla cerimonia in rappresentanza della Casa Bianca – il presidente americano s’è congratulato col brasiliano, il quale ha risposto (il tutto via Twitter) che insieme, “sotto la protezione di Dio”, avrebbero garantito “prosperità e progresso ai propri popoli”.

Il richiamo a Dio non è casuale: Bolsonaro è molto spinto dall’elettorato evangelico, cresciuto in modo prominente negli ultimi anni tanto da esprimere attualmente nel parlamento brasiliano un centinaio di rappresentanti; una lobby forte, che ha votato in massa per l’attuale presidente e che esprime anche tre ministri (Turismo, Avvocatura Generale, Famiglia). Bolsonaro, già parlamentare di estrema destra, piace al mondo evangelico per le sue posizioni conservatrici: sono attratti dalla sua forte opposizione all’aborto e dal desiderio di rimuovere l’educazione sessuale dalle scuole, per esempio.

Un allineamento, quello degli evangelici, con Trump: negli Stati Uniti sono una comunità composta da 100 milioni di credenti di cui l’81 per cento ha votato per il presidente dell’America First, e sono anche una componente molto influente all’interno del Partito Repubblicano (tra loro l’attuale vicepresidente, Mike Pence, il primo giudice nominato da Trump alla Corte Suprema, Neil Gorusch, e la segretaria all’Istruzione, Betsy DeVos), che sostiene Trump e influenza sopratutto alcune scelte in politica estera.

Tra queste, per esempio, lo spostamento dell’ambasciata americana in Israele a Gerusalemme e il generale posizionamento a fianco delle visioni sioniste dello stato ebraico. Pastori come Robert Jeffress della Prima Chiesa Battista di Dallas e John Hagee della Christians United for Israel – un tempo forti critici anti-israeliani (qui due loro vecchie, pesanti visioni, ndr) – hanno sponsorizzato e benedetto “il coraggio” della mossa trumpiana in Israele.

Traiettoria seguita anche da Bolsonaro, e non a caso tra i pochi capi di stato stranieri presenti ieri all’Inauguration brasiliana c’era Benjamin Netanyahu. Neo-eletto, il brasiliano aveva subito annunciato la decisione di seguire Trump nello spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme, svincolandosi dalle pressioni pro-palestinesi dei Turcos, la comunità di oriundi mediorientali che vive in Brasile (che ospita anche la decima, per numero, comunità ebrea del mondo, seconda in Sudamerica soltanto all’Argentina).

L’allineamento con gli evangelici è pragmatico: sono gruppi demografici che, oltre al valore numerico, godono di influenza politica, e anche per questo i due presidenti, a Brasilia come a Washington, ne accettano richieste e posizioni – su Israele, sostanzialmente, il punto è quello spiegato in un vecchio articolo di The Vision: gli evangelici credono che nel momento in cui il popolo eletto tornerà nella Terra Promessa, ripristinata secondo i confini biblici, “Gesù Cristo potrà tornare sulla terra e ristabilire un regno millenario che si concluderà con il giudizio universale”.

Ma al di là dell’aspetto ideologico-religioso su questa trincea pro-israeliana, Trump e Bolsonaro hanno altri interessi e posizionamenti comuni da coltivare. Gli Stati Uniti negli ultimi dodici anni hanno perso il contatto col Brasile: nel 2006 erano i maggiori importatori ed esportatori nel paese, ad oggi sostituiti da Cina e Unione Europea, sono finiti al terzo posto in entrambi i settori dell’economia brasiliana.

Il dipartimento di Stato di Pompeo ha definito l’elezione di Bolsonaro “un’opportunità storica per [creare] legami più stretti” tra Washington e Brasilia. E un riallineamento è certamente in atto, non fosse altro per il feeling tra presidenti (tra le similitudini: sono entrambi molto assidui sui social network). Per esempio, il consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton, messo a cui la Casa Bianca delega i riavvicinamenti politici (è lui, per dire, a gestire il dossier Russia) ha già incontrato a novembre il presidente eletto a Rio de Janeiro. Suo figlio, il membro del Congresso Eduardo Bolsonaro, nello stesso mese, s’è visto a Washington con il consigliere della Casa Bianca, Jared Kushner, potente genero-in-chief a cui tra le varie cose è stato delegato il dossier israeliano.

Sempre a novembre, il ministero degli Esteri brasiliano ha rinviato un’offerta precedente per ospitare in Brasile un summit sul Clima sotto il formato dell’accordo di Parigi, da cui Trump ha ritirato gli Stati Uniti. Motivo formale avanzato da Brasilia era la transizione politica in atto, ma l’uomo che Bolsonaro ha scelto a capo della sua diplomazia, Ernesto Araújo, ha definito – sul suo blog, che si chiama “Contra o Globalismo”, Contro il Globalismo, con sottintesa evocazione bannoniana – gli sforzi per combattere il cambiamento climatico un cospirazione della sinistra globale.

Elementi che lasciano pensare a un avvicinamento, non solo pragmatico, tra i due paesi: Bolsonaro e Trump hanno visioni molto simili sul controllo serrato all’immigrazione, sulla diffusione delle armi, sulle politiche economiche e commerciali, e in generale sulla necessità di innescare una spinta sovranista per ridare slancio ai loro Paesi.

×

Iscriviti alla newsletter