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Brexit, il giorno del giudizio. O no?

Brexit may referendum regno unito

Il grande giorno per Brexit è arrivato. Il “meaningful vote” della House of Commons sull’accordo negoziato tra la Commissione Eu e il governo britannico per regolare la separazione del Regno Unito dall’Unione Europea si è tenuto ieri, dopo cinque giorni di intenso dibattito parlamentare. E alla fine la montagna ha partorito un topolino. Il Withdrawal Agreement è stato bocciato con un’ampia maggioranza, 432 voti contrari e 202 a favore, coerentemente a quanto stava ormai emergendo nel corso del dibattito parlamentare.

L’opposizione al Whitdrawal Agreement ha visto la convergenza di posizioni diverse. Da quella del leader del Labour Jeremy Corbyn che richiede nuove elezioni generali, alla proposta di un nuovo referendum avanzata da diversi “remainers”, principalmente laburisti, ma su posizioni distinte da quelle di Corbyn, e dai movimenti del People’s Vote, fino all’uscita no deal obiettivo degli “Hard Brexiteers” presenti sia tra i Conservatives che nel Labour. Ma senza dimenticare la posizione di molti parlamentari, in primo luogo conservatives, che sarebbero disponibili ad approvare questo stesso accordo se venisse apportata una modifica al controverso meccanismo del backstop al confine irlandese, il meccanismo secondo cui l’Irlanda del Nord resterebbe nell’Unione doganale con l’Ue fino a quando non venisse approvato un apposito accordo per regolare le relazioni tra le parti nel post Brexit, che ha rappresentato il principale scoglio che ha impedito l’approvazione del Withdrawal Agreement.

Proprio in relazione a quest’ultimo punto, lunedì era stata inviata alla premier Theresa May una lettera dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Junker e dal presidente del consiglio Ue Donald Tusk i quali, premettendo che per l’Ue non ci sono le condizioni per concedere modifiche all’accordo già negoziato, hanno inviato alcuni chiarimenti fornendo l’interpretazione secondo cui il backstop sarebbe attivato solo se strettamente necessario e per un periodo di tempo limitato, e rimarcando la volontà della Ue di non arrivare ad attivarlo facendo tutto quanto possibile per giungere ad un accordo sulle future relazioni entro la fine del periodo di transizione, stabilito al 31 dicembre 2020.

Il prossimo passo sarà immediato. Già oggi verrà discussa e posta in votazione la mozione di sfiducia presentata da Jeremy Corbyn a seguito della bocciatura del Withdrawal Agreement. Se la mozione dovesse essere approvata ci saranno, come previsto dal Fixed-Term Parliament Act, 14 giorni di tempo per far sì che il governo riconsolidi la maggioranza o che si determini un nuovo governo. Se questo non accadrà si andrà a nuove elezioni.

La situazione è ancora in evoluzione. Non è infatti affatto scontato che la mozione di sfiducia venga approvata. Il Dup, il partito degli unionisti nordirlandesi il cui voto era stato finora determinante per sostenere il governo di Theresa May e che ieri ha votato contro l’approvazione del Withdrawal Agreement, ha già dichiarato che voterà per respingere la mozione di sfiducia. Così come quella parte di conservatives che ieri ha votato con il Labour contro l’accordo presentato dal governo difficilmente avrà interesse a sostenere la mozione di sfiducia rischiando di avviare un percorso che porti al governo il Labour.

Se la mozione non sarà approvata allora è possibile che la premier Theresa May, come ha già dichiarato, avvii immediatamente una fase di consultazioni trasversali per individuare una soluzione concordata sui prossimi passi da compiere. È probabile che l’esito di una siffatta consultazione possa essere quello di un nuovo mandato alla premier per andare a Bruxelles per richiedere modifiche al Whitdrawal Agreement tali da permettere al Parlamento Britannico di approvarlo. In questo caso sarà essenziale verificare quale sarebbe la posizione della Commissione Europea, e se questa si mostrerebbe disponibile a recedere dalla posizione fin qui manifestata di fermezza nel non concedere alcuna modifica all’accordo già negoziato. Andrebbe poi in tal caso verificata la necessità di procedere con una proroga del periodo di negoziazione, poiché al momento resta in vigore la data di uscita del 29 marzo di quest’anno, con o senza un accordo. In questo caso resterebbe inoltre sul tavolo la proposta di un ricorso al referendum che avrebbe un sostegno trasversale tra le varie forze con posizioni “remainers”.

Se invece la mozione di sfiducia dovesse essere approvata allora bisognerà verificare cosa accadrà nei 14 giorni successivi, se, quindi, il governo riuscirà a ricompattare la maggioranza o se si creeranno le condizioni per un nuovo governo.

Infine, nel caso in cui anche dopo i 14 giorni non si giungesse a una soluzione, allora si tornerebbe a nuove elezioni generali che rappresentano anche l’obiettivo di chi ha presentato la mozione di sfiducia. Di certo il ricorso a nuove elezioni aprirebbe la strada ad alcune complessità. Le intere elezioni si svolgerebbero evidentemente in un clima da nuovo referendum su Brexit, al cospetto di un elettorato fortemente diviso, come evidenziato dai recenti sondaggi che indicano come oggi ci sarebbe una maggioranza a favore del Remain ma comunque molto risicata.

Inoltre delle elezioni così fortemente concentrate sulle tematiche relative a Brexit finirebbero per porre in secondo piano nella campagna elettorale tutti gli altri temi relativi all’azione di governo, accentuando un trend in atto ormai da due anni con il dibattito su Brexit predominante su tutti gli altri temi.

Infine bisogna sottolineare come nuove elezioni andrebbero a spostare ulteriormente in avanti nel tempo il raggiungimento di una soluzione definitiva per Brexit. Bisognerebbe infatti attendere l’esito del voto, la costituzione di un nuovo governo, sempreché dalle urne esca una maggioranza ben delineata, e poi bisognerebbe attendere che il nuovo governo porti a compimento tutte le procedure necessarie per dare seguito al mandato ricevuto dagli elettori.

Ed è proprio l’incertezza, sulle scelte e sui tempi necessari ad attuarle, che rappresenta la principale preoccupazione per i rappresentanti del mondo imprenditoriale britannico, come confermato in queste ore, ad esempio, dal direttore generale della Camera di Commercio Britannica, Adam Marshall, dal presidente della Camera di Commercio di Londra, Colin Stanbridge, e dal direttore dell’Institute of Director, Stephen Martin, che all’unisono chiedono di scongiurare un’uscita no deal e di individuare soluzioni che diano certezza e favoriscano stabilità per l’economia.

Certezze e stabilità che in questo momento non sono indispensabili solo all’economia britannica ma sono molto importanti anche in Europa. Non bisogna infatti dimenticare le forti interrelazioni tra le economie dei due versanti della Manica. Basti pensare agli oltre 650 mld di euro di scambi commerciali tra Unione Europea e Regno Unito registrati nel solo 2017, o ai mercati finanziari e agli oltre 850 miliardi di euro al giorno di strumenti finanziari denominati in euro scambiati principalmente nella City, solo per citarne alcune.

Sul versante britannico è certamente anche dalla valutazione che si dà di queste interrelazioni che discendono le diverse posizioni su Brexit che si stanno confrontando in queste settimane. C’è la posizione di chi ritiene che negli anni si sia ormai creata una situazione di interconnessione tale per cui l’uscita dalla Ue non potrebbe che avere effetti negativi e recessivi sull’economia britannica. Ci sono invece quanti pensano che recuperare indipendenza nelle scelte, ad esempio nella realizzazione di accordi commerciali con Paesi terzi, rappresenti un fattore di possibile sviluppo economico ma che al contempo ritengono che questo si possa fare mantenendo una relazione di intensi scambi economici e commerciali con la Ue profittevoli per entrambe le parti.

È poi presente una scuola di pensiero secondo cui il Regno Unito avrebbe dei vantaggi nel slegare il più possibile la propria economia da quella europea, ponendosi anzi in concorrenza con questa nell’andare ad attrarre capitali ed investimenti da economie terze, quali ad esempio quella cinese, per fare del Regno Unito il crocevia degli investimenti su questa sponda dell’Atlantico e di Londra una nuova Singapore.

Per ora le lancette continuano a scorrere da quando si è celebrato il referendum del 2016, ma ancora non si è giunti ad una soluzione. Ieri sembrava essere una giornata cruciale. Già oggi se ne presenta una nuova.


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