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Obiettivi e strategie per vincere la sfida del governo Conte. La versione di Scotti

In un tempo come quello che stiamo vivendo, l’esercizio della previsione ha dinanzi a sé grandi difficoltà. Dire cosa sarà del governo italiano, dunque, è parecchio azzardato; vale, piuttosto, provare a leggere i segni dei tempi e con questa lettura cercare di sviluppare qualche utile riflessione.

Le prossime elezioni europee rappresenteranno, inevitabilmente, uno spartiacque per tutti i governi nazionali dei Paesi che fanno parte dell’Europa. Sono evidenti i contrasti all’interno dei Paesi che fanno parte dell’Unione europea: questi vanno dal confronto sul trasferimento all’Unione di maggiori poteri sovranazionali a questioni che toccano l’esistenza stessa dell’Unione, sino al contenuto e alla gestione delle politiche per fronteggiare la crisi economica esplosa negli Usa nel 2008 e, infine, al contrasto sulle politiche, e relativa gestione, dei flussi migratori provenienti dall’Africa e dal Mediterraneo.

A rendere più evidente la criticità del posizionamento dell’Europa c’è il crescere della competizione fra Cina e Stati Uniti per il primato sia economico sia tecnologico a livello globale. Il 13 novembre scorso, la cancelliera tedesca Angela Merkel, di fronte al Parlamento europeo, ha sottolineato come oggi l’Europa sia sola e ha rivolto un appello ai Paesi membri dell’Unione perché siano consapevoli di dover esclusivamente fare affidamento sulle proprie forze.

Per queste ragioni di incertezza del contesto globale ed europeo, non credo sia possibile affidarsi ai sondaggi e alle opinioni di chi oggi si avventura nel prevedere il futuro del governo Conte. Dobbiamo ragionare realisticamente. Se è vero che siamo in una fase di profonda transizione di un cambio d’epoca, l’unico dato certo è che nei Paesi euroatlantici tira – tra mille spifferi – un vento con una chiara direzione. Una quota crescente di popolo non punta a una rivoluzione, come l’abbiamo conosciuta negli ultimi secoli, ma partecipa a movimenti che hanno come unico obiettivo la distruzione delle tradizionali élite conservatrici e riformatrici che non sono più capaci di assicurare sicurezza, crescita e benessere.

Già prima della caduta del Muro di Berlino, spinta da un cambiamento tecnologico con una crescente dimensione globale delle vicende umane, un’ondata liberista cercò di affidare agli automatismi di mercato il governo del cambiamento e della globalizzazione. Queste politiche liberiste non potevano non spingere a elevati tassi di crescita e a nuove espressioni di creatività imprenditoriali nelle occasioni offerte dalle nuove tecnologie. Dovevamo essere però avvertiti che questa spinta liberista avrebbe portato al crescere delle disuguaglianze e della concentrazione della nuova ricchezza nelle mani di pochi e, quindi, a forti sperequazioni che coinvolgevano anche i ceti medi che erano stati l’ossatura di una larga coesione sociale e politica del capitalismo renano.

A essere politicamente messa in discussione nella pratica di governo è stata innanzitutto la democrazia rappresentativa di stampo liberale. E poi, in successione, la mediazione, l’accordo e le forme di new deal perché ritenute tutte incompatibili con la necessità di un’economia e di una società moderne. Questa forte turbolenza non poteva non mettere in crisi l’Unione europea, la costruzione politica frutto della scelta di mettere insieme le risorse economiche, sociali e soprattutto quel patrimonio culturale dell’umanesimo liberale. E la mette in difficoltà di fronte alla prima grande crisi economica del 2008, neppure prevista dal Trattato europeo del 1992.

Solo approfondendo le ragioni di quel vento contro le élite si può capire, prima di giudicare con supponente onniscienza, la nascita di movimenti, certamente non omogenei né con una forte radice culturale perché non derivanti da ideologie tipiche degli ultimi decenni, ma che cercano una legittimità a partire da temi specifici (l’ultima esperienza è quella dei gilet gialli in Francia). Conseguentemente, solo alla luce di questo contesto si può capire il governo di due forze tra loro così diverse per sensibilità e obiettivi, ma ambedue alla ricerca di una risposta alle sfide del cambiamento.

Non dimentichiamo che questo governo non è stato il risultato di scelte elettorali e politiche che potevano portare a una coalizione con una forte e comune ragione politica. Il governo è frutto di questo stato di necessità che non poteva e non può avere chiare scelte per un necessario cambiamento. Non è un problema di inesperienza di governo, ma di oggettiva difficoltà di sostituire con un contratto una comune visione strategica del cambiamento.

È evidente che non è facile, in queste condizioni e nel vuoto di risposte ereditato, raggiungere facilmente un insieme di azioni di governo condivise da queste due realtà politicamente disomogenee. Due forze politiche del tutto diverse si sono messe insieme sulla base di un contratto di governo e hanno cercato, al di là degli schieramenti di destra, sinistra e centro ai quali eravamo abituati, di trasformare sensibilità nuove e bisogni di giustizia in azioni per il cambiamento. Evocando un rapporto con un popolo inesistente ma con cittadini con i loro bisogni di sicurezza, lavoro ed eguaglianza, Lega e Movimento 5 Stelle cercano di costruire un’operazione che mostra potenzialità e altrettanti limiti.

L’Italia deve costruire il suo cambiamento prendendo coscienza dei limiti e dei vincoli della globalizzazione dalla quale non si può uscire, come dimostra il caso della Brexit. Senza ripensare quale sovranità è possibile nel tempo presente non recupereremo nessuna vera sovranità. Il dato centrale è che la politica si ritrova del tutto immersa nella realtà. In questo, anche la cultura di larghi strati sociali, quella dei no e dei sì a ogni costo, deve ripensare nuove mediazioni: la realtà delle sfide globali, quella vera, è l’unico faro possibile.

E questo non è un tema solo italiano, ma globale. Il futuro del nostro Paese lo potremo costruire solo partendo da dove la svolta e questo governo ci hanno portato e ci porteranno. Riuscirà a vincere la sfida del governo, e quindi anche del governo Conte, chi riuscirà a capire il cambio di epoca nel quale siamo immersi, con i suoi nuovi paradigmi ed equilibri. Non basta soltanto fare chiarezza nella gestione dei flussi migratori per dare sicurezza al Paese. La strutturalità dei fenomeni migratori pone questioni identitarie nelle nostre società e mette in evidenza il peso strategico del dato demografico tra aree del mondo.

Ultimo, ma non ultimo, si aggiunga che viviamo il tempo della Rete, delle tecnologie blockchain e dell’intelligenza artificiale; si tratta di qualcosa che – molto più profondamente di quanto vediamo – sta ponendo in metamorfosi la nostra realtà globale, gli equilibri di potenza e la natura stessa del potere e della politica. In tale contesto, chiederci se il governo italiano durerà e con quale composizione, è una pura perdita di tempo. Chiediamoci piuttosto cosa sta nascendo da questa esperienza nella direzione delle sfide e delle aspettative che hanno determinato i comportamenti elettorali del marzo scorso. La risposta è niente o quasi. E questo dovrebbe preoccuparci per il nostro Paese.


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