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Carige, prima il mercato poi lo Stato. La versione di Tria

Nazionalizzare o non nazionalizzare, questo è il problema. La differenza è sostanziale ma il sentiero lungo il quale si muove il governo è stretto. La banca genovese è stata messa in sicurezza, è vero: il governo ha garantito le prossime obbligazioni della banca per un importo fino a 3 miliardi. Ma non basta a salvare l’istituto. C’è un problema di patrimonio. E qui le strade sono due. O Carige finisce tra le braccia di un’altra banca dalle spalle più larghe, oppure entra lo Stato nel capitale, possibilmente pro-tempore, non ci sono terze vie.

Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, è stato ascoltato nel primo pomeriggio alla Camera proprio sulle prossime mosse del governo su Carige. Ruolo di mero garante o salvatore della patria come per Mps? Il responsabile del Tesoro è stato chiaro, come peraltro il suo stesso consigliere Pasquale Lucio Scandizzo, ha detto intervistato giorni fa da Formiche.net. La prima scelta è e rimane il mercato, ovvero l’aggregazione, il paracadute è la ricapitalizzazione di Stato. Il decreto messo a punto dal governo prevede infatti ambo le soluzioni, relegando la seconda ipotesi al rango di intervento precauzionale, con cui evitare un bagno di sangue. “Il governo auspica una soluzione privata della crisi che consenta il superamento in via definitiva delle attuali criticità”, ha spiegato Tria.

Un errore da non commettere è, secondo il ministro, confondere una ricapitalizzazione con denaro pubblico con una vera e propria nazionalizzazione. Qualcuno potrebbe aggrottare la fronte, ma ad essere fiscali, una differenza c’è. In caso di mancata aggregazione infatti, lo Stato potrebbe decidere di entrare in Carige con una quota di maggioranza relativa, sotto il 50%. Nel caso di Mps infatti il capitale in mano al Tesoro ammonta al 68%. “Una eventuale ricapitalizzazione precauzionale di  Carige con risorse pubbliche sarebbe una misura temporanea e l’accostamento alla nazionalizzazione sarebbe improprio”.

C’è poi un’altra ragione che gioca a favore della soluzione privata e anche questo il ministro lo sa bene. Un intervento dello Stato nel capitale di Carige, infatti,  farebbe scattare il tanto temuto burden sharing, anticamera del bail in, vale a dire la partecipazione di azionisti e possessori di bond subordinati con la conversione di quest’ultimi in capitale. I risparmiatori conoscono bene questo tipo di soluzione, piuttosto dolorosa. I titolari di bond emessi della banca si vedono trasformare il proprio credito verso l’istituto in azioni, ma non sempre il valore è lo stesso, anzi. Se le azioni valgono zero, come nei casi delle 4 banche, si rimane con un pugno di mosche in mano. Anche per questo la fusione con un’altra banca è la priorità del governo.

A questo punto sulla strada verso la soluzione al caso Carige è fatta di due step. Primo, l’individuazione di un partner industriale. Secondo, qualora fallisse la prima, l’avvio di una trattativa con l’Europa in caso di necessità di intervento statale. In quest’ottica Tria, che ha chiesto tra le altre cose un’accelerazione per la nomina del nuovo presidente Consob, ha ricordato come il governo abbia varato il decreto per prestare un sostegno a Carige nel rispetto delle norme europee sugli aiuti di Stato e come l’esecutivo si attenda “il nuovo piano industriale entro febbraio auspicando che si agevoli la ricerca di un partner per l’aggregazione”.

In ogni caso c’è una sola certezza, per il momento. La crisi di Carige non è da imputare allo spread. Il quale “non è un bene, il governo ha cambiato la sua manovra per far scendere lo spread, ma con la crisi Carige non c’entra assolutamente nulla. La crisi della banca si deve a problemi di governance, al comportamento degli azionisti, probabilmente gli amministratori non sono stati in grado di far rendere la banca”.

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