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Perché la nomina del vescovo di Hong Kong è cruciale per l’accordo Cina-Vaticano

Vaticano

La morte del settantatreenne mons. Michael Yeung Ming-cheung, da poco più di un anno vescovo di Hong Kong, rappresenta un bel problema per la Santa Sede. Soprattutto dopo la firma dell’Accordo provvisorio con la Cina dello scorso settembre che ha aperto a un disgelo pastorale – in futuro si vedrà se sarà anche diplomatico – atteso da decenni. Criticata da più parti perché concederebbe troppo a Pechino, l’intesa è ancora troppo fresca per consentire bilanci definitivi. Se dagli Stati Uniti arrivano le bordate più forti contro l’Accordo, in oriente le opinioni sono più fluide: da una parte c’è chi ritiene che ogni apertura da parte delle autorità cinesi – anche se minima – sia meglio della situazione attuale. Dall’altra c’è chi, come il vescovo emerito di Hong Kong, il cardinale Joseph Zen, parla di appeasement totale alla repubblica comunista.

In questa situazione complicata si inserisce il problema della successione a mons. Yeung. Si sceglierà un pastore di basso profilo, che in qualche modo si attenga alla linea vaticana senza assumere posizioni controproducenti? O la Santa Sede punterà su una figura energica, che pur fedele alle disposizioni della Segreteria di stato, tenga testa anche alle provocazioni dell’ingombrante vicino? Il rischio è alto in entrambi i casi: se prevarrà la soluzione “sbiadita”, pioveranno le critiche, dando in qualche modo ragione a Zen che parla di capitolazione senza possibilità d’appello. Se invece si opterà per la seconda opzione, a infervorarsi potrebbe essere Pechino.

Che la situazione sia delicata lo conferma la nomina dell’amministratore apostolico della diocesi, “con la responsabilità di governarla durante la sede vacante e fino a ulteriori comunicazioni”, nella persona del cardinale John Tong Hon, vescovo di Hong Kong dal 2009 al 2017 e creato cardinale da Benedetto XVI nel 2012. Figura di assoluto rilievo, Tong Hon è un convinto sostenitore dell’accordo con la Cina. Una scelta che si presta a diverse interpretazioni: la prima, più scontata, è che Roma non vuole rischiare di avere sulla cattedra episcopale della città autonoma un “freno” all’intesa ancora fragile con Pechino. Da questo punto di vista, la scelta del cardinale Tong Hon è di assoluta garanzia, dato anche il profilo del presule.

La seconda linea di pensiero punta sul fatto che la Santa Sede ha preferito nominare una figura neutra per il periodo necessario a individuare il nuovo vescovo. Si spiegherebbe così la decisione di non nominare amministratore apostolico mons. Joseph Ha, attuale ausiliare di Hong Kong e quindi scelta naturale per coprire la sede vacante nell’immediato. Mons. Ha, francescano, presenta però diversi problemi: non è per nulla filocinese. Si batte da tempo per la liberazione dei vescovi incarcerati nella Repubblica popolare, ricorda ogni anno i fatti di Tienanmen con veglie e messe, avanza rivendicazioni democratiche che a Pechino non piacciono. E’ dunque una figura che si può definire “ingombrante”, molto più di quanto sia stato il defunto mons. Yeung. Alla fine, a spuntarla potrebbe essere padre Peter Chou, preside del seminario “Holy Spirit”, che per stile pastorale si avvicina molto al profilo più volte delineato da Papa Francesco.

In ogni caso, la scelta sarà dettata – mai come in questa circostanza – anche dalle contingenze politiche. È una di quelle nomine che, nel pourparler vaticano, vengono definite “importanti” e sulle quali non ci si può sbagliare.

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