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Perché non ci sono le basi giuridiche per la disobbedienza civile sul decreto sicurezza

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L’approvazione del decreto sicurezza ha incontrato forti opposizioni, che si sono manifestate con critiche politiche e morali alle norme restrittive in materia di immigrazione ma anche con richiami al contenzioso costituzionale, alla disobbedienza civile, al diritto di resistenza, all’obiezione di coscienza.

Le contestazioni sul piano costituzionale, nel rispetto delle procedure per adire la Consulta, sono ammissibili e, per certi versi, a fronte di una legge particolarmente divisiva e che involge delicati temi umanitari, anche auspicabili, per offrire al Paese un vaglio di conformità al patto fondamentale tra i cittadini. Le ipotesi di disobbedienza civile non sembrano corrette, tenuto conto che i sindaci e i presidenti di regione sono parte integrante dello Stato, hanno obbligo di fedele applicazione delle leggi, non possono effettuare una valutazione di incostituzionalità a livello amministrativo, operano con atti che hanno ricadute sulle comunità che li hanno eletti. Del pari, un richiamo al diritto di resistenza non sembra percorribile, per gli stessi motivi della disobbedienza civile ma anche perché tale diritto, in una logica costituzionale, si connette alla difesa da un regime oppressivo o a una sovversione dell’ordine costituzionale e non ad una scelta politica non condivisa.

Più complesso è il tema dell’obiezione di coscienza. Al riguardo si osserva che il conflitto morale, in una collettività laica organizzata, non può restare sul piano della interiorità del singolo amministratore pubblico, sia esso di carriera o elettivo, né essere rimesso al vaglio di un ente che si accrediti come giudice della moralità, e va definito sul piano giuridico. La Carta fondamentale stabilisce che i titolari di funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con fedeltà e sono responsabili degli atti compiuti in violazione di diritti, con ciò statuendo il dovere del pubblico funzionario di rispettare e applicare le leggi dello Stato. La Costituzione prescrive inoltre che, nella gestione della pubblica amministrazione, siano assicurati il buon andamento, l’imparzialità e il rispetto del principio di legalità, in conformità all’indirizzo politico democraticamente adottato.

In tale quadro il decreto sicurezza, sul piano giuridico, non può che essere fedelmente applicato dai sindaci e amministratori pubblici, come legge dello Stato, in conformità ai principi dell’azione amministrativa. Nel contempo esso appare inidoneo a consentire l’obiezione di coscienza. Questo in quanto, in primo luogo, anche secondo un principio sancito dal Consiglio di Stato, i motivi di coscienza sono da imputare al singolo individuo, mentre la “coscienza” delle istituzioni pubbliche è costituita dalle leggi che le regolano, integrandosi nel principio di legalità: il che comporta che l’amministratore pubblico, fatto salvo l’indirizzo politico della propria istituzione, debba accantonare i propri convincimenti etici, religiosi e morali, ed esprimere la volontà funzionale dell’amministrazione, cioè quella coerente con le leggi dello Stato. In secondo luogo perché il valore etico e morale di cui è portatore l’amministratore pubblico non può essere ritenuto a priori prevalente sul valore della legalità e sugli interessi della collettività amministrata. Anzi, la Corte costituzionale ha chiarito che l’obiezione di coscienza del funzionario vada esclusa quando le funzioni pubbliche svolte, presentino connotazioni di rilievo costituzionale, che potrebbero essere lese dall’esercizio di un simile diritto, ritenendo che in tali casi la libertà morale del funzionario incontri limitazioni più ampie di quelle del comune cittadino, specie allorché vi siano attenuate modalità di partecipazione all’atto considerato moralmente riprovevole.


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