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I democratici hanno il vento in poppa. La gara per battere Trump

I Dem sono lanciati, hanno preso il controllo della Camera da poche settimane (dopo averne conquistato la maggioranza alle elezioni di metà mandato del novembre scorso) e hanno tutta l’intenzione di capitalizzare l’investimento politico che gli elettori hanno fatto su di loro – i dati dicono che mentre nel 2016, alle presidenziali, il candidato repubblicano Donald Trump aveva chiuso dietro di 3 milioni di voti, ora il distacco è stato triplicato, e la distanza che soffre l’attuale presidente è di circa nove milioni di elettori, il dato più alto dal 1974 (l’anno in cui Richard Nixon si dimise per evitare l’imbarazzo dell’impeachment certo).

I leader del partito stanno giocando bene le proprie carte sullo shutdown, tengono il punto e cercano di scoprire lati deboli del rapporto tra amministrazione e partito nello stallo della chiusura degli uffici federali. Forti della maggioranza alla Camera, inoltre, minacciano di aprire varie indagini a livello di commissioni su Trump a cominciare con gli affari collegati al Russiagate seguendo la linea di consenso tracciata da chi Trump lo detesta e lo vuole detronizzare il prima possibile (“We’re gonna impeach the motherfucker” è il motto con cui Rashida Tlaib ha aperto il suo mandato dopo aver vinto un seggio nell’hinterland di Detroit alle Midterms).

E non è un caso se in questo momento, con i riflettori dei media puntati finalmente anche sui democratici – mentre finora la presidenza aveva oscurato ogni altro lato della politica americana – si registrano i primi, gasati outing per la corsa presidenziale. È un elenco lungo, senza una stella ancora davvero brillante, e con diversi la cui sola presenza fa registrare la distanza tra democratici e repubblicani e Casa Bianca in questo momento.

Ha iniziato il 31 dicembre 2018 Elizabeth Warren, senatrice molto leftist dal Massachusetts, annunciando un “comitato esplorativo” per elezioni del 2020 – il Washington Post ha sintetizzato il politichese: al 99 per cento si candida. Trump la chiama “Pocahontas” perché ha commesso un errore imperdonabile quando cercava di rivendicare origini nativo-americane: con sprezzo del ridicolo, Warren presentò pubblicamente un test del Dna che dimostrava che di nativo non ha quasi niente (di distanze si diceva: da qualche giorno sta girando molto online un video in cui un gruppo di studenti di un college maschile del Kentucky sfottono per le sue origini un nativo americano veterano del Vietnam, che a Washington stava partecipando alla Marcia dei Popoli Indigeni. Molti di quei ragazzi indossano un cappellino Maga come quelli che porta Trump).

Poi è stato il turno di altri due: la prima è l’hawaiana Tulsi Gabbard. È una parlamentare democratica reduce dall’Iraq, già sostenitrice di Bernie Sanders nel 2016 (che incarnava un’area politica simile a quella di Warren). Gabbard è giovanissima (ha il record per la più giovane eletta, quattordici anni fa, quando entrò ventunenne al Parlamento hawaiiano), punto a suo vantaggio, ma è molto criticata perché qualche anno fa ha incontrato Bashar el Assad in un viaggio incoming organizzato dal regime siriano e da lì preso una posizione pubblica non troppo diversa dalla narrazione russo-iraniano-siriana della guerra civile in Siria, e sul ruolo dei ribelli e dello Stato islamico. A proposito delle distanze con l’attuale Casa Bianca, recentemente Gabbard ha detto parlando del caso Khashoggi: “Hey, Trump, essere la puttana dell’Arabia Saudita non è esattamente America First”. Si riferiva alla copertura politica-diplomatica che l’amministrazione ha fornito al trono di Riad sulla vicenda dell’assassinio del giornalista.

Poi Julian Castro: è l’ex sindaco di San Antonio, tra le principali città del Texas e fratello di un deputato. La sua storia è praticamente l’opposto della retorica che sta dietro al Muro. Nipote di immigrati messicani, lanciando la sua candidatura (il 12 gennaio) ha detto: “La storia della mia famiglia testimonia cosa è possibile quando questo paese fa le cose nel modo giusto”.

Negli ultimi due giorni hanno annunciato pubblicamente la loro candidatura per le prossime presidenziali altre due importanti democratiche. Kirsten Gillibrand ha sciolto le riserve: dopo che da settimane si sapeva che aveva iniziato a formare la squadra che comporrà il suo comitato, e dopo una serie di appuntamenti in Iowa (swing state su cui è bene lavorare da subito), la senatrice di New York è andata in televisione al Late Show di Stephen Colbert e poi da Rachel Maddow. Ha dalla sua un elettorato piuttosto conservatore, bianchi istruiti, e sta già lavorando su questo: nei giorni in Iowa ha puntato tutto sul suo lato materno. Ha chiesto le ricette per i biscotti, ha detto ai cameraman che camminavano all’indietro per riprenderla di fare attenzione a non cadere, ha battuto molto sull’uguaglianza di genere contro un presidente che tre anni fa, quando ancora era solo il candidato, fece scandalo perché uscì sui media un suo “grab’em by the pussy” registrato di straforo.

Ieri ha annunciato pubblicamente la candidatura anche Kamala Harris, senatrice dalla California. Di colore, carismatica, espressiva (e con certe facce da meme) Harris aveva traccheggiato un po’, sfruttando l’occasione per presentare il suo ultimo libro, un’autobiografia, “The Truths We Hold” (“Le verità in cui crediamo”), come proxy per testare il terreno – col doppio fine di attirare su di sé attenzione, e dunque aumentare le copie vendute. Harris seguì un piano simile prima di essere eletta procuratrice generale della California: era il 2010, ai tempi girava per presentare il suo “Smart on Crime”.

Anche la lista dei democratici sulla rampa di lancio è piuttosto lunga: c’è il senatore junior del New Jersey Cory Booker, e Sherrod Brown (quello senior dall’Ohio), Amy Klobuchar del Minnesota e ancora non ha detto di no Bernie Sanders leader dei leftist, senatore del Vermont ed ex contender di Hillary Clinton. Tra i tanti, anche l’ex vicepresidente di Barack Obama, Joe Biden, sta valutando un’eventuale candidatura: i sondaggi lo vedono come strafavorito, ma deve fare i conti con l’età – 76 anni.

E poi c’è BetoBeto O’Rourke, diventato famoso negli ultimi mesi per aver sfidato alle elezioni di midterm Ted Cruz nel fortino repubblicano texano. Beto, millennial dallo star power formidabile, ha raccolto una quantità di fondi eccezionale e la sua sfida epica è stata la cosa più avvincente delle ultime elezioni (il primo gennaio salutava l’anno passato come il migliore della sua vita con una foto su Twitter in cui era intento, in maniche corte, a costruire un igloo sulla neve fresca insieme alla moglie e i tre figli). Ora è in fase di rollio, ma intanto ha ricevuto una delle massime investiture democratiche: il 5 febbraio sarà ospite dell’evento organizzato da Oprah Winfrey “Oprah’s SuperSoul Conversations” da Times Square (altri ospiti: Bradley Cooper, Michael Bakari Jordan, Melinda Gates e Lisa Borders).

 



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