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Trump, America first e il (vecchio) ordine mondiale. Parla Stephen Walt

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A due anni dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca vale la pena sottoporre a un occhio critico un cliché che fin dall’inizio ha accompagnato il presidente. “Il ciclone Trump” ha davvero sradicato dalle fondamenta i pilastri su cui si è retta la politica estera americana per settant’anni? E se “America first” avesse cambiato regole e convenzioni senza aver davvero modificato il campo da gioco? “Sì, il mondo è in disordine, ma Trump non è l’unico responsabile. Anche Bush e Obama hanno fatto la loro parte”. Stephen Walt esordisce così dal suo ufficio ad Harvard. Politologo e saggista di fama internazionale, decano della prestigiosa cattedra di relazioni internazionali alla John Kennedy School of Government, Walt è il capofila della scuola realista e una delle voci più autorevoli (e critiche) sul corso di politica estera avviato da Trump. Intervistato da Formiche.net, il politologo ripercorre, regione per regione, la strategia con cui il Tycoon ha cambiato volto al vecchio ordine mondiale, nel segno della continuità.

Stephen Walt, esagera chi sostiene che Trump in due anni abbia sconvolto le regole del vecchio ordine mondiale?

Non c’è dubbio che oggi l’ordine mondiale disegnato dagli Stati Uniti stia vivendo il momento più difficile dai tempi dell’amministrazione Bush, quando già si erano affacciate le prime tensioni a causa dell’unilateralismo statunitense. Gran parte della confusione si deve non tanto alle scelte del presidente Trump quanto al suo comportamento e al suo guanto di sfida ai pilastri di questo ordine. Penso al suo scetticismo verso la Nato, al suo atteggiamento rude e irrispettoso nei confronti di storici alleati americani come il primo ministro canadese Justin Trudeau o la cancelliera tedesca Angela Merkel. Senza contare la decisione di abbandonare l’accordo sul nucleare iraniano, che tutti gli altri leader europei consideravano funzionante. La nomina di John Bolton come consigliere per la Sicurezza nazionale non ha aiutato, perché anche lui è convinto che gli Stati Uniti non debbano giocare secondo le regole. Detto questo, è bene non sopravvalutare l’impatto dirompente di Trump.

Ovvero?

Le politiche che Trump ha effettivamente messo in atto non hanno segnato un distacco così radicale dal vecchio ordine mondiale. Sì, ha chiesto di rinegoziare alcuni accordi commerciali, ma tanti che lo hanno preceduto alla Casa Bianca hanno fatto lo stesso e in fondo i nuovi accordi raggiunti non sono così diversi. Il nuovo accordo sul Nafta è tremendamente simile al Nafta. E sì, gli Stati Uniti sono ancora parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc).

Lo stesso vale per la Nato, e altre alleanze regionali rimaste in piedi…

Esatto. Gli Stati Uniti sono ancora la colonna portante dell’Alleanza atlantica e hanno ancora stanziate le loro truppe nell’Europa dell’Est come stabilito dalla European Deterrence Initiative (Edi). Hanno mantenuto e forse preservato meglio gli alleati in Medio Oriente. Trump ha promesso di ritirare le truppe dall’Afghanistan, e invece, proprio come Barack Obama, ne ha aumentato il numero.

A proposito di Medio Oriente, sembra che nella regione abbia ancora la meglio la linea del genero Jared Kushner. Israele, Arabia Saudita e Paesi del Golfo uniti contro l’Iran. È così?

Non so chi abbia in mano le chiavi per la politica in Medio Oriente, ma sospetto Bolton abbia più peso di Kushner. Anche in questa regione non ci sono stati cambiamenti radicali. Gli Stati Uniti sono stati a lungo alleati di Israele, Egitto, Arabia Saudita e degli altri Stati del Golfo. Forse oggi questo asse è più coeso e più aggressivo con l’Iran. Ma ricordiamo che l’ostilità fra Washington e Teheran non è certo iniziata con Trump, dura da quarant’anni. È vero, l’amministrazione Obama ha negoziato l’accordo sul nucleare con l’Iran, ma ha anche usato armi cyber contro il programma nucleare degli ayatollah e in cambio dell’accordo ha offerto un maggiore supporto a Israele ed Arabia Saudita per calmare le loro preoccupazioni.

Che dire invece dell’Africa? A dicembre, dopo due anni di sostanziale silenzio, Bolton ha svelato la strategia dell’amministrazione Trump. È sufficiente per fermare l’avanzata cinese?

A mio parere gli americani non hanno alcuna intenzione di lasciare l’Africa ai cinesi. D’altronde sono coinvolti in dozzine di operazioni anti-terrorismo tutt’ora in corso in Nigeria, Etiopia e nel Corno d’Africa. L’indifferenza degli strateghi statunitensi per l’Africa è una storia più vecchia dell’amministrazione Trump.

Rimane notevole il numero di ambasciatori e diplomatici americani che ancora non sono stati nominati nel Continente nero..

Questo è un errore innegabile. Il ritardo nelle nomine diplomatiche rientra in una serie di attività di routine che Trump affronta senza la necessaria competenza. Il suo disprezzo per il Dipartimento di Stato e per una genuina diplomazia è davvero qualcosa di mai visto.

Spostiamoci in Europa, protagonista di un continuo braccio di ferro con l’amministrazione Trump sul tema della sicurezza. È vero, come sostiene ormai una buona parte dell’élite militare statunitense, che continuare a parlare di Difesa comune ed esercito europeo tolga tempo e soldi alla ben più efficace Alleanza atlantica?

Non sono d’accordo. Gli Stati Uniti devono rimettere nelle mani degli europei la loro sicurezza, ma devono farlo in modo costruttivo, collaborativo, e soprattutto graduale. Invece di screditarla, l’amministrazione americana dovrebbe continuare a sostenere l’Unione Europea come una forza che garantisce sicurezza e stabilità al Vecchio Continente. Trump ha perfettamente ragione quando dice che l’Europa deve pensare alla sua sicurezza. Il passaggio del testimone però non può avvenire dal giorno alla notte.

Oggetto di preoccupazione dell’Unione Europea è la Russia di Vladimir Putin, accusata da Stati Uniti e alleati di violare continuamente gli accordi di Minsk del 2014. Trump rivendica di essere stato “il più duro” con Mosca e al tempo stesso di aver favorito una distensione dei rapporti. La verità sta in mezzo?

Nessuno crederà alle motivazioni di Trump finché non sarà fatta chiarezza su quali sono stati i rapporti suoi, della sua organizzazione e del suo team in campagna elettorale con il governo russo. Questo è il vero ostacolo per un miglioramento delle relazioni bilaterali fra Washington e Mosca. Trump è all’angolo. Se oggi provasse ad allentare le tensioni con la Russia in qualunque modo le persone sospetterebbero che lo stia facendo per ragioni sbagliate o, peggio, personali. È un vero peccato, perché un rapporto più limpido e disteso con la Russia sarebbe una buona notizia per l’Europa e il mondo intero.

C’è da auspicare che il verdetto di Mueller e del suo team arrivi al più presto…

Sarebbe bello se presto tutti sapessimo la verità su quanto accaduto durante quella campagna elettorale. È importante che Mueller faccia bene il suo lavoro, ma l’accuratezza delle indagini viene prima della rapidità. È fondamentale che i risultati dell’inchiesta sul Russiagate, buoni o cattivi, siano estremamente credibili per evitare che le persone possano metterli in dubbio.

Chiudiamo con la Cina. Il caso Huawei, l’azienda hi-tech contro cui gli Stati Uniti hanno costruito una coalizione internazionale con l’accusa di spionaggio e furto di proprietà intellettuale, è eloquente delle tensioni fra Washington e Pechino. È solo politica?

Aspettiamo i risultati delle indagini giudiziarie prima di giudicare la solidità delle accuse mosse all’azienda. È evidente però che le preoccupazioni verso certe pratiche poco corrette di Huawei non provengono soltanto dagli Stati Uniti ma da tanti altri Paesi. Si può dire che è in atto una reazione globale contro il tentativo da parte della Cina di espandere la sua influenza nel mondo. Nessuno desidera una nuova Guerra Fredda con la Cina, ma al contempo nessuno ha intenzione di permettere ai cinesi di fare ciò che vogliono, a cominciare dal mondo della tecnologia.

Possiamo dire che oggi la Cina è considerata il nemico numero uno degli Stati Uniti?

Non posso darti torto. A Washington c’è un consenso sempre più esteso sulla minaccia economica e militare cinese. È una convinzione bipartisan di cui sono portavoce tanto i repubblicani quanto i democratici. Prima ancora dei politici e dei militari è però la business community americana ad essere preoccupata. Si era illusa di poter costringere i cinesi a cooperare con un approccio più morbido e aperto. E invece, fatta eccezione per una timida liberalizzazione interna, in Cina non è cambiato nulla.

Il Dragone ha i mezzi per aspirare ad essere la prima superpotenza al mondo?

Sono abbastanza convinto che la Cina non diventerà la prima superpotenza al mondo finché sarò vivo, cioè per altri 20-30 anni (ride, ndr). L’influenza cinese è cresciuta esponenzialmente in questi anni, non c’è dubbio, ma gli Stati Uniti hanno ancora troppi vantaggi competitivi e servirebbe una serie di errori catastrofici da parte nostra per bruciarli tutti.

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