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(E)mission impossible. Se la carne inquina più del petrolio

Di Shefali Sharma e Devlin Kuyek

Più di un decennio fa, la Fao ha annunciato che l’allevamento di bestiame a scopo alimentare stava influendo negativamente su inquinamento, cambiamenti climatici e innalzamento della temperatura mondiale. Numerosi studi successivi hanno confermato questa tesi. Ciononostante, le grandi aziende di carne e prodotti latto-caseari mantengono inalterato il livello di produzione, puntando anzi a incrementarlo ulteriormente. Questo trend mina gravemente quanto definito dall’Accordo di Parigi, ovvero il mantenimento dell’aumento della temperatura globale “ben al di sotto dei due gradi centigradi”.

Se si vuole raggiungere questo traguardo, le emissioni globali totali dovranno diminuire da 51 gigatoni a 13 gigatoni entro il 2050. Tuttavia, anche qualora i settori dell’energia e dei trasporti diminuissero le proprie emissioni, l’obiettivo resterà irraggiungibile se le aziende produttrici di carne e latticini non ridurranno la propria produzione. In uno scenario business as usual, il settore zootecnico potrebbe consumare oltre l’80% del budget totale, rendendo praticamente impossibile mantenere le temperature ai livelli previsti.

A differenza delle compagnie del settore energetico, le grandi aziende produttrici di carne e prodotti latto-caseari ad oggi non sono oggetto di monitoraggio pubblico in merito all’impatto sul cambiamento climatico. L’assenza di informazioni pubbliche sull’entità delle loro emissioni di gas serra è un fattore che rende difficile intervenire sul problema.

Un’analisi effettuata sulle 35 maggiori aziende mondiali di carne evidenzia come i dati sulla loro impronta ecologica siano incompleti, difficilmente contestualizzabili o, nella maggior parte dei casi, assenti. Solo 4 delle 35 società forniscono stime accurate sulle proprie emissioni, mentre la maggior parte le sottostimano notevolmente. In assenza di dati completi e trasparenti, abbiamo effettuato una quantificazione approssimativa combinando la metodologia di calcolo elaborata dalla Fao, la Global livestock environmental assessment model (Gleam), con i dati aziendali sui volumi di produzione. Il risultato è scioccante: le emissioni combinate delle prime cinque aziende del settore sono pari a quelle di ExxonMobil e significativamente più alte di quelle di Shell o BP. Nel loro insieme, i primi 20 produttori di carne e prodotti caseari producono più emissioni di molti Paesi dell’Ocse.

Dal punto di vista geografico, la maggior parte delle emissioni dovute alla produzione e al consumo di carne e prodotti latto-caseari proviene da un numero limitato di Paesi e regioni, fra cui Stati Uniti e Canada, Unione europea, Brasile, Argentina, Australia e Nuova Zelanda. Sebbene questi Paesi ospitino solo il 15% della popolazione mondiale, da soli producono il 43% delle emissioni globali totali. Altro Paese-chiave è la Cina, ad oggi produttrice numero uno di gas serra per la produzione di carne e latticini.

Solo sei Paesi – o entità sovranazionali – rappresentano quasi il 68% della produzione globale di carni bovine. Brasile, Australia e Usa, da soli, rappresentano quasi la metà (46,5%) delle esportazioni globali. Per la carne suina, la concentrazione è ancora maggiore, con Cina, Ue e Stati Uniti che producono l’80% del totale mondiale. Unione europea, Stati Uniti, Canada e Brasile sono infine responsabili di oltre il 90% delle esportazioni mondiali. Al contempo, solo quattro Paesi – Stati Uniti, Cina, Giappone e Messico – rappresentano quasi il 60% delle importazioni mondiali di carne suina. Una situazione simile vige per il pollame, con Stati Uniti, Brasile, Ue e Cina che rappresentano il 61% del totale della produzione di pollo. Il Brasile e gli Usa, da soli, rappresentano il 63% delle esportazioni mondiali. La situazione del settore caseario non è dissimile. Ue, Stati Uniti e Nuova Zelanda rappresentano quasi la metà (46%) della produzione mondiale. Se si aggiunge la Cina, la quota sale al 52%.

Per quanto riguarda le esportazioni, Ue, Stati Uniti e Nuova Zelanda rappresentano quasi l’80% delle esportazioni di latte scremato in polvere, mentre la sola Nuova Zelanda produce il 68% delle esportazioni di latte intero in polvere. Considerando queste statistiche, non sorprende che il blocco dei sei Paesi-regioni maggiormente produttori rappresenti quasi i due terzi delle emissioni globali prodotte dalla carne e dai prodotti caseari.

Ad oggi non esiste un sistema completo di reporting del settore. Tra le prime 35 aziende di carne e prodotti lattiero-caseari, 14 hanno annunciato obiettivi di riduzione delle emissioni. Ma di queste, solo 6 presentano obiettivi che riguardano l’intera gamma di emissioni legate alla produzione di bestiame. Le restanti 8 presentano invece obiettivi inerenti solo alle emissioni prodotte dalle attività degli uffici, degli impianti di lavorazione e dei veicoli aziendali, escludendo, paradossalmente, quelle legate alla diretta produzione di animali e mangimi, che rappresentano l’80% delle emissioni complessive. Delle 6 con obiettivi che riguardano l’intera gamma di emissioni, infine, solo 2 si stanno attivando per farlo.

Rimane, peraltro, un problema evidente: l’impegno di queste due aziende è meramente volontario. Manca una normativa, con relative sanzioni, che spinga le aziende che producono carne e prodotti latto-caseari a ridurre le proprie emissioni, esattamente come avviene per altri settori. Ad oggi, i tre maggiori conglomerati del settore industriale delle carni e dei prodotti latto-caseari, pur essendo i maggiori produttori di emissioni, non hanno attivato alcun programma in favore dell’ambiente

. La maggior parte delle aziende ha inoltre in programma di aumentare ulteriormente la propria produzione, guardando prevalentemente alle esportazioni. La stessa Unione europea sta negoziando diversi accordi commerciali per incrementare le proprie esportazioni. L’accordo tra Ue e Corea del 2010, ad esempio, si è tradotto in un incremento del 700% delle esportazioni di formaggio verso la nazione asiatica, garantendo peraltro un ampio beneficio alle grandi aziende agricole e danneggiando le piccole e medie imprese, fuori dai circuiti import-export. Gli obiettivi di gran parte delle aziende riguardano l’intensità delle emissioni (emissione per chilogrammo di carne o latte), ma non fanno riferimento alla riduzione complessiva delle emissioni, inevitabilmente destinate a crescere all’aumentare della produzione.

Ma la riduzione dell’intensità delle emissioni, in assenza di obiettivi paralleli per la riduzione totale, appare distorsiva e poco efficiente. Nel secolo scorso gli agricoltori e le aziende hanno ridotto notevolmente l’intensità delle emissioni, ma questi risultati sono stati annientati dall’aumento delle emissioni assolute generate dall’aumento esponenziale della produzione.

Inquiniamo quindi meno per chilogrammo prodotto, ma nel complesso inquiniamo di più. Nel 2010, ad esempio, l’intensità delle emissioni del pollame erano un terzo di quelle del 1961. Eppure, le emissioni totali nel 2010 erano cinque volte superiori a quelle del 1961. Questo perché la produzione complessiva di polli era circa 11 volte superiore a quella del 1961 e 5 volte più elevata su base pro capite. E lo stesso vale per la carne bovina. Nei prossimi anni, questa contraddizione tra l’imperativo aziendale di crescere (e quindi concentrarsi sull’intensità delle emissioni) rispetto all’urgenza ecologica e sociale di ridurre le emissioni totali diventerà molto più evidente.

Sebbene siano in corso ampi sforzi per adottare pratiche di gestione e nuove tecnologie che riducano l’intensità delle emissioni nette, questi non saranno sufficienti. Vi sono diversi modi per portare le emissioni dalla produzione di carne e prodotti lattiero-caseari a livelli compatibili con gli sforzi globali per prevenire pericolosi cambiamenti climatici. Tutti, tuttavia, richiedono significative riduzioni della produzione e del consumo di carne e di prodotti lattiero-caseari.

Per gli agricoltori e gli allevatori, peraltro, la crescita smisurata delle grandi aziende produttrici di carne e latticini rappresenta un grande problema. In Europa e in Nord America, i produttori di piccole e medie dimensioni, trovandosi spesso intrappolati in accordi di fornitura sleali dettati dalle società più grandi, sono spesso costretti a ridurre la qualità dei propri prodotti e la qualità della vita del bestiame.

Inoltre, la sovrapproduzione e il consumo eccessivo di carne e di prodotti latto-caseari rappresentano una minaccia significativa per la salute pubblica, non solo per l’insorgenza di malattie come cancro, obesità, diabete e pressione alta, ma anche perché gli allevamenti sono una delle principali fonti di resistenza agli antibiotici.

Anche i lavoratori, infine, necessitano migliori condizioni di lavoro. Il settore della carne e dei prodotti latto-caseari è tra i meno sicuri e coinvolge fasce di popolazione spesso emarginate. I lavoratori sono spesso costretti a macellare e processare centinaia di animali l’ora.

È necessaria dunque una seria regolamentazione del settore per il benessere dei lavoratori, delle piccole e medie imprese, degli animali e, in primis, dell’ambiente

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