Se oramai le maggiori testate internazionali parlano di guerra fredda conclamata tra Washington e Pechino, ancora non è chiaro come l’Europa abbia deciso di rispondere alla rinnovata assertività, economica e geopolitica, del Dragone. Le opinioni di esperti europee ed internazionali raccolte da Judy Dempsey nella sua rubrica di Carnegie Europe tracciano un quadro variegato ed in costante evoluzione.
Dalla parte di chi pensa che l’Unione e i suoi Paesi membri stiano in effetti affilando i denti contro Pechino troviamo Noah Barkin, corrispondente di Reuters, che fa riferimento alle nuove restrizioni imposte sugli investimenti cinesi e alla possibile esclusione di Huawei dallo sviluppo delle nuove reti 5G. Rimane improbabile, tuttavia, che qualcuno in Europa voglia seguire Trump in caso di scontro totale con Pechino. Nelle capitali Europee, spiega Barkin, la paura più grande è quella che in caso di guerra economica tra i due suoi maggiori partner commerciali, l’Europa si trovi suo malgrado costretta a scegliere da che parte stare.
Di tutt’altro avviso Kris Bledowsky, economista senior al “Manifactures Alliance for Productivity & Innovation”, secondo il quale l’Europa, ancora ignara della portata della minaccia cinese. Secondo l’economista, l’indiscutibile successo economico di Pechino tende a porre in secondo piano le sue pratiche di mercato discriminatorie. L’Europea – prosegue – non può trattare la Cina come un normale partner economico finche questa continuerà a seminare instabilità nel suo vicinato ed a minacciare l’ordine economico liberale. Per questo, i Paesi Europei dovrebbero unirsi agli Usa e opporsi più fermamente alle politiche destabilizzanti di Pechino.
Anche Lizza Bomassi, vice-direttore di Carnegie Europe, ritiene che l’Europa abbia deciso optato per una politica più accomodane di quella americana dei confronti della Repubblica Popolare. Tuttavia, secondo l’esperta, tale scelta si spiega innanzitutto con la mancanza di alternative credibili. Dato il pessimo stato delle relazioni transatlantiche, l’Europa ha assoluto bisogno di Pechino per far fronte alle sfide globali più pressanti. Inoltre, la potenza di fuoco degli investimenti esteri diretti cinesi è un altro fattore che costringe i Paesi europei, in disperato bisogno di rilanciarsi economicamente, a non chiudere le porte in faccia a Pechino. Se a questo si somma la mancanza di una posizione condivisa sui dossier più scottanti che coinvolgono le relazioni euro-cinesi, tra cui ad esempio il tema dei diritti umani, è facile capire come l’UE sia costretta a non forzare troppo la mano con un partner così importante.
Le ambiguità e le incertezze della posizione europea nei confronti di Pechino, nonché la riluttanza europea ad adottare un approccio più duro, sono spesso figlie delle divergenze di interessi e di politiche dei singoli Paesi europei, Questo, in sintesi, è anche il pensiero del direttore dell’Eu-Asia Centre Fraser Cameron. Per Cameron, è difficile per l’Unione rimproverare il regime cinese per i suoi scarsi progressi sui diritti civili se due suoi Stati membri come Ungheria e Polonia si rendono colpevoli delle stesse mancanze. Persino con riferimento alle politiche mercantiliste cinesi, che l’Ue, in quanto primo partner commerciale di Pechino, avrebbe tutto l’interesse a contrastare, l’Unione manca di una strategia comune.
Per questo, Paul Haenle, del Carnegie-Tsinghua Center, si augura che Europa e Usa possano fare fronte comune di fronte a le politiche predatorie di Pechino, cha danneggiano entrambi. Senza l’appoggio europeo, infatti, l’offensiva di Trump rischia di essere delegittimata in quanto sforzo americano per bloccare l’ascesa dell’economia cinese.
Alcuni segnali positivi ci sono, come sottolinea Philippe Le Corre, senior fellow al Carnegie Enfowment for International Peace. Dopo diverse decadi in cui nelle capitali Europee prevaleva ottimismo riguardo la capacità della potenza Cinese di riformarsi in senso liberale, ora l’approccio sta diventato più marcatamente realista. Sul versante economico, le maggiori aziende europee hanno da tempo cominciato a denunciare apertamente la chiusura di Pechino agli investimenti esteri, così come della competizione sleale che devono subire da parte delle imprese statali. Attualmente – spiega Le Corre – è allo studio è allo studio un meccanismo di screening degli investimenti per proteggere il know-how tecnologico europeo e le infrastrutture critiche del continente. Tuttavia, mentre Germania e Francia sembrano più decise a contrastare le politiche predatorie cinesi, i Paesi sud-orientali sembrano ancora riluttanti. Divisioni che, secondo il Professore della Corvinius University di Budapest, Tamas Matura, l’Europa rischia di pagare care. L’Eu, spiega l’accademico, non può permettersi di tagliare i rapporti con Pechino, un partner troppo importante in ottica globale. Soprattutto ora, indebolita dall’interno da Brexit e dall’avanzata populista. Bruxelles dovrebbe invece agire unita per rivedere i termini delle sue relazioni con la Cina, cercando di ristabilire delle regole più eque, a partire da quelle sulla proprietà intellettuale. Un approccio più intransigente sulle regole, senza però andare allo scontro frontale, è la strada suggerita anche da Pierre Vimont, senior fellow a Carnegie Europe. In quanto suo più grande partner commerciale, Bruxelles possiede un’influenza non indifferente su Pechino. A queste condizioni, se agisce unita, l’Ue ha ampio margine di manovra per insistere su più trasparenza e competizione leale.
Insomma, è tempo per l’Europa di cambiare la propria postura strategica nei confronti della Repubblica Popolare. Un orientamento più proattivo e più guardingo nelle relazioni sino-europee è quello che auspica la maggior parte degli esperti internazionali. Tuttavia, la condizione perché tale approccio funzioni è che i Paesi europei agiscano in maniera unita e coordinata, altrimenti sarà il divide et impera di Pechino ad avere la meglio.