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Tecniche vecchie e nuove di disinformazione. Promemoria per l’Italia

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La Disinformazione, quella che i Servizi sovietici chiamavano appunto Dezinformatsjia, è all’origine di quel fenomeno che oggi chiamiamo, con eccessiva semplificazione, fake news, ovvero le false notizie, propalate per sostenere o meno determinate scelte degli elettori o dei consumatori. Sia all’interno che all’estero, naturalmente. Oggi il “mercato politico” è globalizzato esattamente come quello delle merci e dei servizi; e quindi occorre utilizzare tutti gli strumenti che sono a disposizione di un Paese e della sua élite politica. Certamente, oggi lo spazio di azione delle agenzie di Intelligence è infinitamente più vasto di quanto non accadesse all’epoca della guerra fredda, e quindi molte tecniche di manipolazione di massa, che prima erano specificamente politiche, oggi sono anche commerciali, comportamentali, culturali, scientifiche o pseudo-scientifiche. Dalle une nascono le altre, e spesso oggi dalle tecniche di marketing commerciale derivano le operazioni di manipolazione elettorale o politica.

La Dezinformatsjia, in ogni caso, è sempre una operazione “da debole a forte”, ovvero una serie di azioni strategiche e informative che tentano di impedire l’uso della forza a chi è tatticamente superiore. Chi non ha abbastanza missili puntai verso il nemico, o non ha la massima efficienza militare, opera contro l’avversario con tecniche di tipo psicologico e propagandistico, che costano meno e non innescano, per la loro stessa natura, una contromossa convenzionale militare da parte del nemico a cui sono dirette. Ma possono far scattare una Disinformazione uguale e contraria da parte del Paese-bersaglio. Sono tutte operazioni “ironiche”, nel senso etimologico del termine. Ironia deriva dal greco eironèia, ovvero “finzione, dissimulazione, oppure dire il contrario di ciò che si pensa. Si pensi qui alle grandi manifestazioni contro gli “euromissili”, nei primi anni ’80, impreviste dai sovietici, che misero a dura prova tutta l’immensa rete dei servizi del Patto di Varsavia in Europa, oppure al mito dell’apertura al dissenso nell’era del “disgelo” kruscioviano o, come sostiene l’ex-dirigente del Kgb defezionato negli Usa Anatoly Golytsin, gli stessi scismi tra Urss e Cina di Mao, o per la trasformazione del Komintern in Kominform, alla quale partecipò segretamente anche la Jugoslavia, anche dopo il famoso scisma tra Tito e Stalin. Secondo Golytsin, alto dirigente del Kgb, tutte le divisioni interne al mondo comunista sarebbero una immensa e lunghissima fake news. Gli occidentali non gli hanno mai creduto, ma la potenza predittiva del suo libro, New Lies for Old, pubblicato negli Usa nel 1984, è ancora straordinaria. Egli previde la “liberalizzazione” del sistema sovietico e addirittura la sua fine, per poi rinascere in altre vesti.

Tutto vero, fino ad oggi. Ma che cos’è davvero la Dezinformatsjia, la tecnica che è all’origine delle fake news e di tutte le operazioni psicopolitiche attuali? Per i tecnici del Kgb, la Disinformazione è legata al criterio delle “operazioni attive” (aktivinyye meropriatia), ovvero la manipolazione e il controllo dei mass media, la disinformazione vera e propria, sia scritta che orale, l’uso dei partiti comunisti o delle organizzazioni di copertura, si pensi in questo caso a tutte le organizzazioni “per la pace” o per l’amicizia “tra i popoli”, le trasmissioni radio e Tv clandestine. Perfino, tra le “misure attive”, vi è il kompromat, la compromissione degli agenti o dei politici occidentali con questioni di sesso, di affari illeciti, di droga. Un tipo di misura attiva che abbiamo visto all’opera, in questi giorni, contro Trump. Ma da parte dei suoi compatrioti, che però non sembrano ancora molto versati nell’arte della desinformatsjia. Ma non dobbiamo dimenticare che, oggi, è una tecnica fondamentale la manipolazione delle economie degli avversari, o il sostegno ai gruppi guerriglieri o alle organizzazioni terroristiche. Manipolazione delle economie tramite i dati statistici, oppure le operazioni “coperte” dei governi sui mercati azionari, mentre il sostegno ai gruppi terroristici, anche quelli più lontani dalla ideologia di uno stato, si realizza tramite un intermediario, che può essere un altro Stato o una grande impresa, o tramite operazioni finanziarie bilaterali fuori dai mercati. Le prime Brigate Rosse, per esempio, si addestravano in Cecoslovacchia passando attraverso i boschi austriaci al confine, di proprietà della famiglia Feltrinelli. Il capocentro del Kgb a Milano, quando l’editore morì sul traliccio di Segrate, ma molto prima che la polizia italiana sapesse chi era morto su quel traliccio, andò in tutta fretta a riferire all’ambasciata sovietica, a Roma.

Ma sul terrorismo rosso e nero moltissimi Stati, amici e nemici, hanno corso la loro avventura contro la Repubblica italiana. L’obiettivo era chiaro: distruggere o degradare un pericoloso concorrente economico, soprattutto in Africa e in Oriente. La Dezinformatsjia era comunque istituzionalmente diretta contro quello che i sovietici chiamavano “il nemico primario”, ovvero gli Usa. Sotto Stalin, che viene dialetticamente “superato” da Krusciov in costante attrito con i veri innovatori, le “misure attive” riguardavano anche l’assassinio. Non escludo affatto che, in casi particolari, questa tradizione non sia stata recuperata anche dopo la morte del “piccolo padre”. Come si vede, le “misure attive”, la Dezinformatsjia, ha però ancora molto a che fare con il mondo contemporaneo. Se si parla solo di fake news, non si capisce quindi a che fine siano propalate, se invece esse si leggono nella antica, ma ancora attuale, strategia della disinformazione, tutto diviene più chiaro. Nelle normative sovietiche degli anni ’60, ogni sede estera del Kgb doveva dedicare almeno il 25% delle sue forze alle “misure attive”, mentre ogni residenza aveva un ufficiale specificamente addestrato alla Dezinformatsjia. Si noti che, nel 1980, una valutazione della Cia stabiliva un costo totale delle “misure attive” di almeno 3 miliardi di Usd. Era quella la vera battaglia per l’egemonia che l’Urss combatteva, visto che l’equilibrio missilistico, nucleare, convenzionale delle due forze in campo non permetteva uno scontro militare vero e proprio. E, comunque, il risultato dello scontro finale sarebbe stato molto incerto. E, oggi, ogni Stato produce notizie false, movimenti di opinione ad hoc, distribuisce agenti di influenza nei media, nelle università, nelle imprese, nei governi. È quindi la globalizzazione della disinformazione il fenomeno con cui abbiamo davvero a che fare, non con le semplici fake news.

Nella fase della guerra fredda, furono gli apparati sovietici a diffondere la notizia, ovviamente falsa, della relazione della Cia e del Fbi con l’assassinio di John F. Kennedy, mentre gli apparati della Germania dell’Est diffondevano spesso notizie sulla appartenenza alle gerarchie naziste di questo o quel politico dell’Ovest, oppure sulle simpatie filonaziste di Papa Pio XI. Si noti poi che Andropov, eletto segretario del Pcus nel 1982, era stato il capo del Primo Dipartimento del Kgb, proprio quello che coordinava e inventava tutte le “misure attive”. I giornali occidentali furono allora ripieni di notizie su un Andropov “modernizzatore”, lettore dei classici della letteratura americana e amante del jazz. Dezinformatsjia? Ovviamente, ma nessuno rispose, creando una condizione, nelle popolazioni europee Nato, di attesa di una certa e futura “democratizzazione” dell’Urss. Andropov credeva però, in segreto, che gli Usa avrebbero scatenato a breve termine una guerra nucleare contro l’Urss; e quindi questo fu l’inizio di una lunga serie di operazioni dure di Dezinformatsjia proprio all’interno degli Stati Uniti. Che, seguendo le regole delle “misure attive”, non era diretto specificamente contro l’obiettivo, ovvero il sistema militare e politico Usa, ma contro altri obiettivi apparentemente slegati dal fine primario: la responsabilità americana per la creazione (impossibile) del virus dell’Aids, oppure il ruolo “oscuro”, come dicevano sempre gli uomini della Dezinformatsjia sovietica, della Cia e dello Fbi negli assassinii di J.F. Kennedy, di Martin Luther King, o perfino nella morte di Elvis Presley.

A ogni pubblico il suo prodotto. Si crea un romanzo, quindi, non una serie di dati oggettivi ed opinabili, intorno ad un tema che è invece reale, per arrivare ad una generica defamation del nemico primario, dove c’è sempre un “cattivo” (ovviamente il governo Usa e le sue Agenzie) e un “buono”, ovvero il popolo americano che deve essere liberato proprio dal cattivo che lo tiene prigioniero. È proprio questo uno dei canoni primari della fiaba, secondo le teorie del grande studioso russo dei miti, dei riti tribali, delle fiabe e della narrazione fantastica, V.I. Propp, il cui testo “Morfologia della Fiaba” venne pubblicato a Leningrado nel 1928. Lo Schema di Propp prevede, come nelle “operazioni attive” del Kgb, alcune fasi della costruzione del mito o della fiaba: 1) l’equilibrio iniziale, ovvero la fase in cui tutto è privo di pericoli, 2) la rottura dell’equilibrio iniziale, e quindi la creazione del movente per l’azione successiva, 3) le peripezie dell’eroe, che è colui che “riporta l’ordine” dopo le naturali peripezie, 4) il ristabilimento dell’equilibrio, ovvero la conclusione. Tutto il meccanismo mitico e fiabesco riguarda allora gli archetipi della mente umana, così come sono stati descritti da Carl Gustav Jung. Ecco perché, malgrado la loro evidente controfattualità, le costruzioni propagandistiche funzionano bene, e durano ben oltre il tempo per il quale sono state pensate. Sono modellate, le operazioni attive, secondo i parametri naturali con cui opera la mente umana, non utilizzano, se sono fatte bene, teorie astratte o modelli culturalistici o settoriali. Parlano a tutti, perché operano sull’inconscio. Non a caso esiste oggi anche, ed è peraltro molto diffuso, l’archetypal branding, ovvero il sistema di marketing basato sui 12 archetipi junghiani.

Nato nel 2001, diversi anni dopo la caduta dell’Urss e nella fase in cui il Nuovo Ordine Mondiale si stava solidificando. Che funzionano, i quattro elementi di Propp, proprio come una “misura attiva”, sulla base di quattro categorie: 1) la stabilità, 2) l’appartenenza, 3) il cambiamento, 4) l’indipendenza. È facile verificare come queste quattro categorie del marketing moderno (e della fiaba archetipica) siano del tutto applicabili sia alle operazioni di disinformazione, che possono favorire spesso uno dei quattro elementi rispetto agli altri, che allo stesso marketing politico attuale vero e proprio. Politica, propaganda dei Servizi, marketing funzionano quindi, oggi, sulla base degli stessi meccanismi psichici profondi. Nella tradizione sovietica, poi, vi è una certa tendenza ad usare la psicologia di Ivan Pavlov nell’ambito dell’intelligence. Pavlov è il creatore della teoria dei “riflessi condizionati”, ovvero di quel meccanismo psichico che viene prodotto da uno stimolo condizionante. Il notissimo esperimento del cane e del campanello è, appunto, ben noto, e non lo ripeterò qui. Ma è bene notare che il riflesso condizionato si instaura proprio quando la bistecca annunciata dal campanello non c’è più, mentre il cane manifesta tutte le reazioni tipiche dell’animale che si trovi di fronte alla bistecca reale. Ecco, le “misure attive” della disinformazione creano un riflesso condizionato collegando un paese, un leader, una scelta politica a qualcosa di universalmente negativo, ma che non ha niente a che fare con l’oggetto primario. E questo collegamento diventa istintivo, automatico, ovvio, quasi inconscio. Si pensi all’automatismo, anche questo creato ad arte, tra i nostri Servizi e la cosiddetta “strategia della tensione”.

Creare un riflesso condizionato pavloviano che funziona immediatamente e naturalmente come un “complesso” freudiano, ecco l’obiettivo della Dezinformatsjia perfetta. Ma, per avere successo, ogni messaggio fake news che fa parte di una “misura attiva” deve avere almeno un grano di verità, altrimenti appare subito come opinione o ideologia, che vengono subito rifiutati dal soggetto. Ovvero possono essere discussi e, magari accettati razionalmente, ma la “misura attiva” deve mimare una reazione immediata, naturale, pre-razionale. Altrimenti diventa propaganda tradizionale o parte di un dibattito aperto, esattamente il contrario di quel che deve fare. Quindi, il messaggio deve essere elaborato con estrema attenzione per arrivare all’obiettivo di ogni disinformazione: veicolare nel pubblico “nemico” e/o nelle sue classi dirigenti un messaggio che si inserisce perfettamente e inconsapevolmente, se è fatto bene, nei meccanismi comunicativi del “nemico”. Gli esperti occidentali chiamano questa procedura “informazione come arma” o “fabbricazione dell’informazione”.

Ma, ormai, tutta l’informazione oggi è drogata dalla manipolazione riguardo ai fini che essa deve far raggiungere, si pensi qui a tutto il dibattito italiano e europeo sull’immigrazione dall’Africa. Quindi, anche l’occidente usa la weaponization of information. Ma, probabilmente, la usa ancora male. E, allora, non vedremo mai la fine delle fake news, che ci sono sempre state, ma semplicemente il loro perfezionamento come veri e propri “stati dell’animo” naturali o, più spesso, come reazioni immediate, come quelle collegate ad un riflesso condizionato creato ad arte. In questo caso, non c’è più differenza tra reale e immaginario. La fake news come romanzo, potremmo dire. Se è questo il nuovo campo di battaglia della guerra psicologica, allora sarà bene che l’Italia, anche autonomamente dal centro Nato che si occupa di “informazione strategica”, si fornisca di una struttura, interna alle Agenzie, che elabori specifiche operazioni di Disinformazione. Per esempio, riguardo alle nostre imprese che operano all’estero, alla generale immagine del nostro Paese nel resto dell’Europa, alle nostre azioni in Africa o altrove.

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