C’è una differenza profonda tra i 5 Stelle e la Lega che va oltre la diversa base programmatica: a sua volta espressione di un contrapposto blocco sociale di riferimento. Ma che è, per così dire, di natura antropologica. Matteo Salvini è continuamente costretto ad inseguire Luigi Di Maio, cavalcandone le iniziative. Almeno fino alle prossime europee, poi si vedrà. Ma lo fa per contrastare Roberto Fico ed Alessandro Di Battista, la cui eventuale egemonia sull’intero Movimento potrebbe portare ad un rovesciamento delle alleanze parlamentari, con la nascita di un’eventuale maggioranza di sinistra: ben vista da esponenti di primo piano dell’establishment italiano.
Il comune risentimento antifrancese, esploso in questi giorni, altro non è che il riflesso di questo continuo ping pong. Se si esaminano, tuttavia, le due prese di posizioni le differenze appaiono evidenti. Salvini guarda soprattutto alla Libia ed a ciò che è avvenuto negli anni passati. L’intervento di Sarkozy contro Gheddafi, che fu allora subito dal governo Berlusconi. Comportò la completa destabilizzazione del Paese, nel tentativo di contenere gli interessi italiani e sostituirli con quelli francesi. Un conflitto che affonda le sue radici nella storia dei primi del ‘900: quando l’imperialismo la faceva da padrone. Scontro che non è terminato ai nostri giorni, come mostra il tentativo di Macron di svolgere un ruolo di mediazione tra le due opposte fazioni – Bengasi e Tripoli – che, in quel martoriato territorio, si contendono il potere. Se a questo si aggiunge il problema dei migranti che, da quelle sponde, partono verso l’Italia, il quadro si completa. Si può anche non essere d’accordo con questa posizione. Resta, tuttavia, il fatto che la crisi non risolta della Libia coincide, in larga misura, con l’impossibilità di frenare le imbarcazioni dei disperati verso l’Europa.
La posizione dei 5 Stelle è completamente diversa. Non ha questo retroterra. L’unica forza effettiva del Movimento è la protesta contro le malefatte, presunte o reali, nei confronti di coloro che, nel recente passato, hanno governato il Paese. Ma questo non basta per rappresentare una reale alternativa. Non basta a Roma o Torino. Ma nemmeno a Palazzo Chigi, come mostra del resto il continuismo con le passate politiche: dalle banche alla “manovra del popolo”. I cui limiti appaiono sempre più evidenti nelle più recenti valutazioni degli organismi internazionali – la Commissione europea, a quanto sembra, confermerà le previsioni del Fmi e della Banca d’Italia – o dei Centri studi indipendenti.
In politica estera, dove si richiede un livello di approfondimento molto più complesso, questi limiti sono risultati ancora più evidenti. Non basta, infatti, cercare alleanze oltralpe – leggi l’endorsement ai gilet gialli – per costruire una piattaforma programmatica. Se poi le fonti sono quelle della rete, la frittata appare inevitabile. L’incidente in cui è incorso Alessandro Di Battista, trascinandovi Luigi Di Maio che ne teme la concorrenza, è plateale. L’accusa di neocolonialismo, a proposito del Franco Fca – che regola i rapporti monetari con i 14 Paesi del Centro Africa – lo dimostra. Il ministro degli Esteri in pectore dei 5 Stelle ha preso per buono un documento dei gilet gialli, postato sulla rete da estranei al movimento. Che non si sono mai sognati di indicare nella loro piattaforma l’obiettivo di “porre fine al sistema del Franco Fca che mantiene l’Africa in uno stato di povertà”. Come si legge nel post pubblicato da Luigi Di Maio solo qualche ora fa e riferito al punto 23 di una non meglio precisata piattaforma.
Un incidente che si poteva evitare solo se si fossero conosciute le reali condizioni di quei Paesi che, certamente, non brillano nel panorama internazionale. Ma sono comunque migliori dei loro vicini più noti. Se si esclude la Guinea equatoriale, che nel 2019 dovrebbe subire una compressione del Pil del 2,6 per cento, le previsioni per i restanti Paesi dell’area del franco, secondo le previsioni dell’Fmi, dovrebbero oscillare da un minimo del 3,4 per cento (Gabon) ad un massimo del 7 per cento (Costa d’Avorio). Che non è poi così male. Sempre secondo l’Fmi, la Tunisia dovrebbe invece crescere del 2,9 per cento, l’Algeria del 2,7, il Marocco del 3,2 e l’Egitto del 5 per cento. Confronti che non depongono certo a sfavore delle ex colonie francesi. Che sono, tuttavia, solo una componente di quella comunità economica.
L’area dell’ex franco francese, oggi dell’euro, non si compone solo di Paesi che furono sottoposti, in passato al dominio francese. Trattandosi di un’associazione volontaria, ha visto l’ingresso di nazioni che avevano una storia diversa. In passato, tra l’altro, vi sono stati Paesi, come il Mali, che prima vi sono entrati. Poi ne sono usciti, per rientrarvi di nuovo, dopo aver verificato che l’aggancio ad una moneta forte garantiva vantaggi maggiori rispetto ad una navigazione solitaria. Per averne una dimostrazione basta fare il confronto con le valute di altri Paesi dell’area mediorientale. Dal 2016, ad esempio, la sterlina egiziana si è svalutata, nei confronti dell’euro del 50 per cento, mentre il dinaro tunisino ha perso il 36 per cento del suo valore, rispetto agli inizi del 2015. La moneta dei Paesi, facenti parte della Comunità economica, è invece rimasta stabile e seguito le oscillazioni dell’euro nei confronti del dollaro.
Conviene avere una moneta forte o subire continuamente il peso della svalutazione? Se i 5 Stelle conoscessero un po’ di storia nazionale non si sarebbero lanciati in temerarie valutazioni, evocando lo spettro dello sfruttamento. Negli anni ’70 la debolezza della lira, comportò in Italia, un’inflazione a doppia cifra. I redditi più bassi furono garantiti dai meccanismi dell’indicizzazione, la scala mobile, ma questo risultato fu ottenuto esclusivamente grazie alla forza del movimento sindacale ed ai meccanismi di un welfare, che certamente non si ritrova nei Paesi emergenti. Poi, a partire dagli anni ’80, cambiò la politica monetaria: rivolta allora a mantenere la stabilità del cambio e quindi ridurre progressivamente il tasso di inflazione. Non furono comunque rose e fiori, come fu evidente nella crescita del debito pubblico, ma almeno la ritrovata stabilità impedì la completa polverizzazione degli assetti produttivi e sociali del Paese.
La morale della favola è evidente. Nella politica economica non esistono soluzioni miracolistiche. Ogni scelta comporta delle controindicazioni. Costi-benefici, come soliti ripetere i 5 Stelle a proposito della Tav. Salvo poi disattendere l’analisi, quando si tratta di cercare uno spazio di semplice propaganda. Anche a costo di apparire per quelli che realmente sono: absolute beginner alle prese con problemi fuori della loro portata. Che possono tuttavia produrre danni incalcolabili.