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Global cities competition, nel mondo e in Italia. I casi di Roma e Milano

fiume

“La capacità di attirare capitali, infrastrutture e talenti da parte delle grandi città condizionerà il livello di competitività di un Paese su scala globale”. Con queste parole la AT Kearney (società globale di consulenza strategica con sedi in 40 Paesi e oltre 1 miliardo di dollari di fatturato annuo), presentava il Global Cities Index 2018, l’indice che misura la competitività delle grandi città del mondo (per la cronaca: New York, Londra e Parigi sul podio; Roma e Milano rispettivamente in posizione 34 e 40).

Come ormai noto, negli ultimi decenni, questo tipo di analisi, comparazione e “competizione” si è spostata sempre più dal livello degli Stati a quello dei territori perché capire come e cosa determina le condizioni migliori per attrarre risorse (umane ed economiche) è diventato prioritario ed è il motivo per cui indicatori di questo genere, che aiutano a leggere dinamiche e realtà, acquisiscono rilevanza e centralità nel giudizio degli investitori e più in generale nella prospettiva di futuro delle singole comunità.

Cinque le aree di interesse misurate: attività economica, circolazione delle informazioni, offerta culturale, ruolo/impegno politico, capitale umano. Cinque parametri di valutazione non convenzionali che facilitano non poco a definire profili ed elementi che spesso sfuggono al racconto della dimensione vera delle metropoli nel mondo. Nel complesso ed a guardare bene, dall’index 2018 vengono fuori due elementi che assumono rilevanza e meritano un accenno di riflessione. Innanzitutto, su scala globale, il fatto che il “capitale umano” sia divenuto ormai stabilmente un parametro da valutare rispetto al potenziale di sviluppo dei territori; secondariamente, su scala nazionale, che in Italia sono (sempre) solo due le città che competono col mondo, Roma e Milano, anche se rimangono ancora entrambi distanti dal vertice.

Rispetto al primo punto, si va ormai positivamente consolidando il fatto che l’investimento sulle persone, la qualità della loro formazione, l’importanza del ruolo che assumono nei processi e le competenze acquisite, siano ormai valori da valutare e determinanti. Tra i diversi indici sull’attrattività della città mondiali, contano tante cose ma sempre più centrale è il tema delle persone e l’investimento sul capitale umano che fanno/permettono/generano le metropoli. Coinvolgere le persone e offrire una condizione sociale e territoriale di investimento su loro stessi e su loro “ambizioni” è ormai un plus che differenzia non poco ruolo e “corsa” tra metropoli nella sfida globale. In questa valutazione, le città si confermano quindi il luogo per eccellenza del singolo, della persona. Per usare le parole dell’economista Enrico Valdani, un ecosistema delle “vocazioni attrattive” rivolto a tutti.

Rispetto al secondo punto invece (le città italiane), al netto del posizionamento di Roma e Milano, c’è da dire che per noi si tratta sempre (e solo) di Roma e Milano. È da far presente come in altre analisi simili e su specifiche tematiche settoriali, le nostre due città scalano posizioni e segnano risultati migliori. Per fare due esempi: l’Osservatorio di Assolombarda del 2018 sull’attrattività delle città europee mette Milano al primo posto per crescita e valore del mercato immobiliare, al secondo per le attività dedicate al tempo libero ed al quarto piazzamento rispetto ai mercati fieristici. Per Roma invece, nel Green Cities index 2018 (comparazione tra popolazione, parchi, giardini, aree agricole e riserve di 50 aree urbane dei Paesi dell’area Osce) il piazzamento all’ottavo posto rispetto alle prime Reykjavik, Auckand, Bratislava e davanti a Berna e Riga. Note queste positive certamente ma settoriali o geograficamente perimetrate.

Nel complesso invece, si conferma l’affanno delle nostre città come attrattività. Il dato vede Roma e Milano appunto come le sole che, con riferimento a differenziati parametri globali, siano le uniche a competere con le città di Europa ed America (molto meno con le grandi metropoli asiatiche che saranno sempre più le protagoniste del futuro come ben dimostrano gli ultimi volumi di Parag Khanna).

A guardare più nel dettaglio, quest’ultimo elemento rappresenta la cartina di tornasole di un limite del Paese. Il fatto cioè, nessuna nostra altra area metropolitana (pensiamo a Torino, Napoli, Venezia, Palermo, Firenze per citarne alcune che per storia, rapporti e progetti hanno riconoscibilità e vocazione di rilievo mondiale) riesca però ad entrare in dinamiche globali se non slegate dal singolo evento o settore (es: turismo o cultura).

Al netto degli sforzi e del lavoro di questi ultimi anni, rimane comunque per le nostre città un limite di scala. Guardando solo a Milano e Roma, con riferimento agli elementi del triangolo territorio/abitanti/impatto potenziale, la penalizzazione di base è evidente. La città eterna conta poco più di 4 milioni di abitati mentre la città ambrosiana si attesta a solo 1,3 milioni di cittadini. Per stare alle prime in classifica, Londra e New York hanno quasi 9 milioni di abitanti ciascuna e se guardiamo in altri continenti (Tokyo 13; Pechino 21,5; Lagos 21; Istanbul e Karachi 15 ciascuna; Shangai 24) ci rendiamo conto che il gap abitanti/peso politico/impatto economico rispetto a territori e Paesi di riferimento, è tutto a svantaggio delle nostre due città.

Nello specifico di capitale politica e capitale economica, oggi Roma non sembra essere percepita come città dal respiro globale (il suo posizionamento in questo indice è dovuto all’essere sede di istituzioni e centro politico). Milano più organizzata da Expo in poi, sembra lavorare davvero sulla dimensione mondo anche “assorbendo” nel suo baricentro il retroterra sociale ed economico dei territori limitrofi (Politecnico e Cattolica hanno poli formativi anche in province diverse da quella meneghina e gli studi di avvocati e commercialisti della città sono quelli che di fatto gestiscono gli affari dei grandi gruppi imprenditoriali di Emilia e Veneto), ma il lavoro da fare rispetto alle megalopoli del prossimo futuro rimane molto.

Nel complesso dello stivale, su attrattività dei territori italiani per investimenti e competitività, siamo quindi indietro e non solo nello studio di AT Kearney. Con un potenziale inespresso che diventa un peso che non ci fa avanzare e comprime energie. Siamo indietro rispetto alle politiche che già da adesso vanno messe in campo per evitare che la classifica del 2019 confermi tutto ciò.

Non resta che aspettare ancora qualche mese (verosimilmente settembre 2019) per capire se abbiamo fatto qualche passo avanti nella graduatoria di questo indice e nella attivazione di nuove politiche pubbliche, tenendo a mente e come bussola, le parole di Herb Caen, giornalista che ha raccontato al mondo la metropoli di San Francisco: “Una città non si misura dalla sua lunghezza e larghezza, ma dall’ampiezza della sua visione e dall’altezza dei suoi sogni”.


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