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L’autocritica di Juncker, contro l’austerità, che non salva la coscienza

I pentimenti postumi di Jean Claude Juncker, a proposito dell’austerità e dei patimenti inflitti alla Grecia, non sono solo lacrime da coccodrillo. Riflettono una preoccupazione reale anche se, almeno al momento, contingente. Guardano alle prossime scadenze, quando l’intera Europa sarà sottoposta alla prova impegnativa del bagno elettorale. Da politico navigato, il presidente della Commissione europea sa che gli astri non sono favorevoli a quella élite che, in tutti questi anni, ha governato l’Europa. Troppi gli errori commessi. L’eccesso di burocrazia che ha fatto da velo alla comprensione dei problemi. Il predominio di regole astratte che hanno colpito al cuore milioni di cittadini. Non solo in Grecia, ma in Italia, in Francia e nella stessa Gran Bretagna, alla presa con una Brexit che rischia di determinare una crisi senza ritorno.

Ed ecco allora il discarico di coscienza. Poca solidarietà. Fiducia cieca in norme cervellotiche che non hanno nemmeno incontrato il favore del parlamento: una gracile istituzione, che comunque, come abbiamo già detto in un precedente intervento, ha fatto sentire la sua voce critica, quando si è trattato di avallare il mito del “fiscal compact”. Che a Rue Wiertz, la via di Bruxelles in cui sorge il palazzo circolare in cui si svolgono i lavori delle Commissioni parlamentari, è stato sonoramente bocciato. Notizia, purtroppo, passata quasi sotto silenzio in Italia. Fatto singolare se si considera la grancassa dell’attuale maggioranza governativa contro i burocrati senza cuore della commissione. Sennonché il parlamento aveva delle colpe da espiare: essendo la commissione presieduta da un esecrabile esponente dell’ancien regime. Come ha detto Alessandro Di Battista, riferendosi al ventilato incontro tra i due Mattei: Salvini e Renzi. Potenza del cieco livore.

Ma torniamo ai pentimenti di Juncker ed ai commenti che hanno alimentato. Il presidente della commissione europea parlava di fronte all’assemblea schierata, per celebrare i 20 anni della nascita dell’euro. Un ambiente che, come abbiamo visto, disincantato rispetto agli strumenti, approntati a livello intergovernativo, per illuminare la via di un comune progresso. Se l’è presa con il Fondo monetario internazionale, ritenuto uno dei principali responsabili della mancata solidarietà con il popolo greco. Il che è anche vero. Ma, comunque, ingeneroso. Quelle scelte furono condivise. Né si è verificato, allora come oggi, un tentativo serio per comprendere quali sono le cause reali, che sono a monte di quella mancata solidarietà.

L’osservazione può essere apparentemente banale. Ma ha un suo reale fondamento. Se la nave imbarca acqua, è evidente che i primi a soffrirne sono i passeggeri in terza classe. Il problema, allora, non è tanto quello di fornire loro un salvagente, ma di turare le relative falle. Dal 2011, l’Eurozona ha avuto a disposizione un’enorme quantità di risorse, che non è stata capace di utilizzare. In media il surplus delle partite correnti della sua bilancia dei pagamenti è stata pari ad oltre il 2,5 per cento del Pil. In valore (2018) si è trattato, secondo le valutazioni della stessa commissione, di circa 450 miliardi di dollari. Per circa il 60 per cento ottenuti in Germania. Percentuale che raggiunge il 74% se si tiene conto della diversità del potere di acquisto.

Queste risorse si sono trasformate in risparmio che poteva essere utilizzato per far fronte agli squilibri socioeconomici dell’intera zona. Poteva, ad esempio, essere impiegato in investimenti nelle grandi infrastrutture. Poteva, specie in Germania, essere usato per ridurre i notevoli squilibri sociali che ancora, colà, permangono. Una simile politica avrebbe fatto crescere la domanda interna e quindi contribuito a generare sviluppo non solo per le economie più avanzate (Germania, Francia, Italia e Spagna) ma anche per coloro ch’erano rimasti indietro, favorendo le loro esportazioni verso le aree più ricche. Il cosiddetto “effetto locomotiva” che i tedeschi hanno rifiutato con una costanza degna di miglior causa. Come hanno rifiutato qualsiasi ipotesi di messa in condivisione del debito a favore di coloro che, per le ragioni dette, non riuscivano a tenere il passo.

Una politica miope che, alla fine, ha presentato il conto. Quando Donald Trump se la prende non solo con i cinesi, ma con gli stessi europei e la loro politica mercantilista, qualche ragione è dalla sua parte. Per molti anni l’Amministrazione americana è ricorsa alle armi spuntate della moral suasion, ritrovandosi con un pugno di mosche in mano. Poi il ciclone Trump ha cambiato musica, con la minaccia dei dazi, ed allora la politica di austerità, ch’era alla base di quel “modello di sviluppo”, ha mostrato tutte le crepe che, in passato, erano rimaste furbescamente occultate. Ci saremmo pertanto aspettati da Juncker un discorso meno generico. Un’indicazione più precisa sulla necessità di un cambiamento radicale delle politiche seguite. Ed invece solo una tardiva e poco produttiva mea culpa.

Naturalmente quel tipo di sviluppo non è stato senza padri e madri. Ha consentito ad un pugno di Paesi – la Germania in testa – di garantirsi un primato produttivo senza precedenti. Con un limite tuttavia: quello di concentrarsi in un tipo di produzione dall’incerto avvenire: quella più tradizionale. Mentre Cina e Stati Uniti puntavano i loro sforzi nelle tecnologie del futuro: informatica, internet, intelligenza artificiale, biomedica e via dicendo. Per cui è bastato poco alle aree più forti del Pianeta, mettere in crisi i precedenti equilibri. Ed ecco allora il preoccupato discorso di Mario Draghi. Che pur non temendo una “recessione” non nasconde il pericolo di un “rallentamento” che “prosegue e porta a una minore fiducia”. Che non deve essere ulteriormente alimentata dall’attacco ingiustificato al sistema bancario. Il problema non è “cambiare la cultura del pagamento dei debiti, ma aiutare i poveri a ripagarli”, cambiando le regole dello sviluppo. Un monito per tutti.

Luigi Di Maio è stato tra i primi a replicare: lesto nel cavalcare i limiti della prolusione del presidente della commissione europea. La sua risposta è stata: chiudiamo la sede del parlamento a Strasburgo. Ritenuta “una marchetta francese” di cui si può fare volentieri a meno e risparmiare circa 1 miliardo di euro all’anno: tanto costa la doppia sede istituzionale. Quindi, secondo quel ragionamento, si può risparmiare 1 miliardo di euro rispetto ai 446 miliardi di dollari che sono il prezzo di una cattiva politica, che genera disoccupazione ed asimmetrie nello sviluppo: è la cifra vera di ciò che hanno in testa i 5 stelle. Per loro tutto si risolve nell’epurazione delle vecchie classi dirigenti sia nazionali che europee. Per poi “che fare?” rimane ancora un grande mistero. Lo si nota un po’ dappertutto: da Roma a Torino, passando per Palazzo Chigi. E francamente non è un bel vedere.

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