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Sensibilità religiose e sentimento anti-israeliano. Il caso del Museo di Haifa

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Haifa è conosciuta per essere una città mista, modello della “convivenza”. Il fine settimana molti turisti visitano Haifa per l’enorme mercatino delle pulci, per i nuovi ristoranti, e per gustare quello che con un sottile sarcasmo i locali chiamano il “du-ki”, l’abbreviazione di du-kium (coesistenza, in ebraico), che a Haifa non è una grande questione, ma una realtà. Haifa è anche conosciuta per essere una città molto laica, dove le comunità religiose vivono nel rispetto del pluralismo – per esempio Haifa è l’unica città in Israele dove il trasporto pubblico funziona anche di shabbat e dove non ci sono tensioni religiose. A Haifa ancora non si viene per la sua vita culturale e a Haifa non ci sono tensioni religiose, almeno non fino alla settimana scorsa.

Giovedì e venerdì scorso (10-11 gennaio) un gruppo di manifestanti si è radunato di fronte al Museo d’Arte di Haifa per protestare contro l’esibizione di un’opera ritenuta offensiva nei confronti della comunità cristiana. Venerdì c’è stato uno scontro con la polizia, che ha bloccato il gruppo in protesta mentre tentava di entrare nel Museo – tre poliziotti feriti e almeno un arrestato tra i partecipanti alle proteste che hanno lanciato pietre e almeno una bomba molotov nello spiazzo d’entrata al museo.

In seguito alle proteste, la ministra della Cultura Miri Regev avrebbe dato ordine al museo di rimuovere l’opera perché offensiva della sensibilità religiosa delle comunità cristiane. Domenica 13 gennaio Haaretz pubblica un articolo contro la ministra della Cultura, già attaccata in passato per le sue iniziative considerate populiste, difendendo la libertà di espressione – senza contare la posizione della minoranza cristiana. Lo stesso articolo cita l’archimandrita (superiore della congregazione) della Chiesa greco-melchita, padre Abu Sa’ada, che avrebbe detto “ciò che può andar bene in Europa non va bene qui da noi”. Lo stesso giorno, i rappresentanti di diverse denominazioni cristiane firmano un comunicato, ripreso dal sito al-Mayadeen, in cui ribadiscono la posizione contraria all’opera d’arte ma si distanziano dalle proteste violente alludendo a elementi sociali che strumentalizzano la questione per fini politici (senza specificare poi quali siano questi elementi).

Martedì 15 gennaio il sito Arab48 pubblica un articolo in cui sostiene che il museo, la municipalità di Haifa con la nuova sindaca Einat Kalish-Rotem, e i capi delle denominazioni cristiane hanno trovato un accordo per cui l’ora sarà rimossa dalla stanza in cui è esposta e sarà messa in una parte chiusa accessibile al pubblico dopo un chiaro avviso sul suo contenuto. La saga però non finisce qui.

L’artista dell’opera in questione, il finlandese Jani Leinonen, intervistato dal sito Keshet, avrebbe espresso la propria disapprovazione all’esposizione di un’opera in Israele, in quanto abbraccerebbe il boicottaggio culturale di Israele. Di conseguenza avrebbe chiesto la rimozione dell’opera – richiesta che il museo di Haifa non ha però confermato, pur avendo trattato casi simili in passato. La posizione dell’artista finlandese non è stata però ripresa dai movimenti che promuovono il boicottaggio di Israele e nemmeno dai siti particolarmente ostili a Israele. Tanto è che Jamil Khader, professore di letteratura inglese all’Università di Betlemme e sostenitore di una narrativa anti-israeliana, pubblica un articolo su al-Jazeera in cui condanna l’opera d’arte (giudicandola arte di cattiva qualità) e lo Stato di Israele in un unica argomentazione secondo cui la mostra vorrebbe distogliere l’attenzione dai crimini di Israele e l’artista avrebbe mancato l’opportunità di condannare la colonizzazione israeliana. L’articolo non si esprime su quelle che definisce “le proteste della popolazione indigena”, né sulla questione della libertà d’espressione.

Il caso del Museo di Haifa dimostra la politicizzazione di tutto ciò che riguarda Israele anche quando si parla di richieste che provengono proprio dalle minoranze. La mostra “shop it” ha portato a Haifa diverse opere, eventi e workshop sugli aspetti del consumismo contemporaneo, compresa l’influenza del consumismo sulla religione e i suoi simboli. La protesta delle comunità cristiane dava voce al sentimento religioso della minoranza, strumentalizzata poi da movimenti politici che hanno preso violente le manifestazioni e da movimenti ideologici. In ordine: la richiesta della ministra della Cultura di rimuovere l’opera è stata criticata da alcune associazioni israeliane perché limita le libertà di manifestazione del pensiero, senza riferirsi alla richiesta di rimozione da parte delle comunità cristiane; La stessa posizione della ministra è stata criticata dagli anti-israeliani perché strumentalizzerebbe la posizione della minoranza cristiana, per distogliere presunti crimini dello Stato ebraico; l’artista si opporrebbe all’esibizione della sua opera per una politica di boicottaggio di Israele. In tutto questo che fine fa il dibattito sulla libertà di espressione, sulla sensibilità religiosa e sulla cittadinanza della minoranza cristiana in Israele?

Un altro modo di leggere gli eventi potrebbe essere questo: il Museo di Haifa espone un’opera che i capi religiosi delle comunità cristiane ritengono offensiva della sensibilità religiosa perché riproduce un simbolo centrale alla cristianità, cioè il crocifisso. L’organizzazione di proteste formali di fronte al museo è poi dirottata su forse di manifestazione violente che i capi delle comunità condannano, riferendosi a movimenti politici che strumentalizzano il caso specifico. Chi critica la ministra della Cultura sostiene che strumentalizza la difesa della sensibilità religiosa per coprire il proprio populismo, chi critica il museo per farne una battaglia contro un’istituzione identificata con lo Stato ebraico; chi si adopera per rendere le manifestazioni violente; chi ritiene che l’esibizione di arte in Israele sia una violazione dei diritti dei palestinesi… tutti insieme non hanno minimamente tenuto conto né della voce della minoranza cristiana (che poi, sarà essa unanime?), né delle richieste dei suoi capi religiosi, né di come le cose si siano evolute in realtà. Infatti, la sindaca di Haifa, i rappresentanti delle chiese cristiane e il museo avevano trovato un accordo che andava bene a tutti, che teneva conto della sensibilità religiosa e della libertà di espressione, cioè mettere l’opera in un’area accessibile ma non esposta al pubblico generale.

I diritti delle minoranze, la libertà di espressione e la sensibilità religiosa (in particolare quando questa è di un gruppo minoritario) possono essere oggetto di disquisizioni di grande interesse e raffinati stili retorici come di analisi pratiche sulla mediazione tra interessi, diritti e libertà. È un peccato che anche questo caso sia da molti visto in una luce ideologica, che mette in ombra sia la minoranza cristiana, sia la realtà di Israele.

Farne una campagna di esaltazione della democrazia israeliana, mette in ombra la realtà: non è questo un episodio sensazionale o eccezionale, ma una realtà della prassi politica e sociale israeliana. Israele è una realtà complessa, in cui la divisione tra maggioranza ebraica e minoranza araba è frastagliata da differenti identità culturali, religiose, politiche e socio-economiche che rendono la gestione delle diversità un elemento centrale anche della politica locale. Il compromesso e la negoziazione tra interessi, diritti, posizioni politiche, sensibilità di varia origine è la normalità in Israele. D’altra parte fare di questo caso una campagna di esaltazione della causa palestinese, riproducendo il risentimento storico per la nascita dello Stato di Israele e le posizioni anti-israeliane per via del conflitto è un’operazione retorica e politica un po’ artificiale. Quello che accade nella West Bank non ha a che vedere con gli arabi cittadini di Israele; in secondo luogo i cristiani sono da secoli una minoranza in questa parte del mondo e l’identità nazionale araba-palestinese non è un collante universale per ogni tipo di identità. La comunanza identitaria in entrambi i casi è una riduzione della realtà al solo conflitto e a posizioni ideologiche da essa molto distanti.

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