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Vi spiego la nuova global strategy di Israele

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In primo luogo, se vogliamo studiare le posizioni politico-militari di Israele, dobbiamo analizzare la Siria. E il problema in Siria, per Gerusalemme, si chiama Mosca, anche se apparentemente si chiama Teheran. Una delle aree di de-escalation si trova infatti nel Golan, e lo stato ebraico non apprezza certo che Iran e Hezb’ollah possano operare tranquillamente nel Golan, anche senza compiere atti bellici ma sotto la protezione russa, che è peraltro la garante di tutta quell’area. Il governo di Gerusalemme vuole, soprattutto, che la Federazione Russa non intervenga mai a favore dell’Iran. Ma, se vanno via dalla Siria gli iraniani e le forze sciite, si indebolisce, fino forse a diventare periclitante, il controllo stesso della Russia per garantire la stabilità siriana. Quindi, Israele vuole che siano i russi e perfino i siriani che allontanino l’Iran dallo stesso quadrante di Damasco, minacciando una guerra vera e propria sul suolo siriano, insieme agli Usa. Americani e israeliani potrebbero buttar giù Assad dal potere e, comunque, allontanare la Russia dall’area, e quindi dal Medio Oriente. E questo è un obiettivo primario di Mosca, ovvero rimanere, con un forte e decisivo potere, nel grande Medio Oriente e nel Mediterraneo. Ma gli Usa ci starebbero, a questa operazione antirussa? Non credo. Gli americani parteciperebbero, per poi allontanarsi, dopo aver compiuto le prime operazioni con successo. Letti i primi titoli sul New York Times, ritornerebbero a casa. Gli Usa, o fanno una usucapione ventennale, come in Afghanistan, oppure si limitano a una sveltina strategica.

Ma gli Stati Uniti saranno comunque un partner affidabile per Gerusalemme, in questo frangente siriano, a parte la possibile guerra? È
probabile di no. Washington ha già in mano i suoi curdi che, dopo l’uscita degli Usa dalla Siria, sono subito andati tra le braccia di Assad, in funzione

antiturca. E quale sarebbe, poi, la configurazione del sistema siriano-iranico dopo questo assalto al potere baathista siriano? Probabilmente più pericolosa ancora di quanto non lo sia oggi. Per distruggere le pulsioni egemoniche dell’Iran sciita ci vuole una grande coalizione, certo con gli Usa ma anche e soprattutto con partner islamici, e non mi riferisco solo all’Arabia Saudita. E Mosca non accetterebbe mai nemmeno un millesimo di questo progetto. La Russia non vuole non solo la stabilizzazione della Siria attuale, che è infatti, ormai, un client state russo, ma nemmeno una nuova guerra nel Grande Medio Oriente, per nessun motivo. Allora, una amicizia di Gerusalemme con Mosca è possibile e auspicabile, ma l’unica vera possibilità, realistica, di contenimento dell’Iran dentro la Siria, ovvero sui confini di Israele, è comunque un isolamento forte del potere sciita dentro l’area di Assad, il che può essere anche l’obiettivo di Mosca. Questo anche per saldare i rapporti, sempre più stretti, della Federazione Russa con l’Arabia Saudita, competitor acerrimo dell’Iran, un avversario di Teheran che potrebbe essere decisivo in una ricomposizione postbellica del quadrante siriano. Quindi, ogni strategia realistica di duro containment dell’Iran presuppone un accordo tra la Russia e Israele. Ed è bene ricordare, qui, che Mosca ha un assoluto bisogno, economico, tecnologico, strategico, dello stato ebraico.

Questi argomenti, come altri, li ho fin qui trattati con quella durezza, che pertiene alla amichevole chiarezza, con il mio amico Moshe Ya’alon, quando ho presentato recentemente a Gerusalemme l’edizione israeliana del mio più recente volume. Una guerra preventiva, quindi, sulla Siria, per distruggere l’asse Iran-Hezb’ollah? Probabile, come credo potrebbe essere probabile un sostanziale disinteresse militare della Russia, che si troverebbe così a non avere più molti contatti proprio con un pericoloso concorrente petrolifero, l’Iran, che ha politiche ben diverse da Mosca sugli idrocarburi. Senza dimenticare, peraltro, che i sauditi stanno facendo già la loro guerra nello Yemen, certo per evitare la pressione di un gruppo sciita come gli Houthy, ma anche e soprattutto per venire in possesso delle nuove (e colossali) riserve petrolifere di Kharkhir e di Najran; a parte il fatto che il 60% del petrolio yemenita è oggi già “rubato” dall’Arabia Saudita, tramite l’ex-presidente yemenita Mansour Hadi. E, ovviamente, lo scontro nello Yemen riguarda anche sul controllo dello stretto di Bab-el-Mandeb, il passaggio via mare per 3800 milioni di barili di greggio mediorientale. Ma la Siria è comunque grande, polimorfa, da sempre politicamente instabile e, comunque, con aree minoritarie cristiane, druse e sciite o para-sciite che potrebbero rivelarsi un osso troppo duro per realizzare quella guerra-lampo che è sempre nelle corde del pensiero strategico israeliano. E, inoltre, data la presenza, oggi, di numerosi armamenti iraniani in Libano e, probabilmente, nelle Alture del Golan, un attacco molto rapido dovrebbe basarsi su una analisi estremamente attenta delle postazioni e delle forze dei gruppi sciiti da parte dei Servizi israeliani.

E, comunque, un attacco rapido dovrebbe evitare la contromossa sui confini Nord dello stato ebraico. Quindi, l’unica operazione logica sarebbe, a tutt’oggi, quella di impostare una geopolitica siriana comune con Mosca, che ha interessi paralleli e controlla, sul terreno, le forze sciite. Che è in cerca, proprio Mosca, di un alleato affidabile per contrastare l’ipoteca territoriale iraniana sulla stessa Siria. L’accordo di Israele con gli Usa e la Russia, della fine del luglio 2018, ha permesso poi l’accettazione, da parte di Gerusalemme, della presenza dell’esercito siriano al confine del Golan, ma a poco più di ottanta chilometri dalla linea di confine. Il che implica che le FF.AA. israeliane non entreranno in guerra per minare le prospettive di Mosca e le operazioni siriane, fuori dai confini con Israele. Una evidente accettazione della protezione russa sulle armate di Assad. Gli americani hanno ormai abbandonato anche i loro clientes meridionali, ovvero i “jihadisti democratici”, beato chi ci crede, segno di una ormai verificata impossibilità, da parte degli Usa, di pensare in modo strategicamente corretto. Infatti, sia Mosca che Gerusalemme sanno che lo scontro siriano è una guerra che può riguardare tutto il globo. Non il solo Medio-Oriente o la solita storia della “democrazia” contro “il terrorismo”. È stato l’innesco, lo scontro siriano, di una possibile guerra mondiale. Washington ha invece letto la guerra in Siria come una semplice war on terror, una sorta di Tavor geopolitico. Certo, Israele ha rafforzato molto le sue postazioni nel Golan, ma basterà? Non credo. La possibilità dell’Iran (che finanzia e addestra anche il Jihad Islamico a sud di Israele) di avviare uno scontro regionale contro lo stato ebraico anche dalla Striscia di Gaza è tale da non permettere una eccessiva fiducia nell’attuale status quo.

Intanto, c’è l’apertura di Israele in Asia, economica ma anche politica. Ovvio, la motivazione di Gerusalemme risiede nel fatto che l’Asia sarà la regione dominante, per l’economia ma anche in senso politico-militare. E qui c’è l’opportunità, da sfruttare in un prossimo futuro, di un nesso geopolitico tra Pechino e Gerusalemme, che potrebbe condizionare facilmente anche il Grande Medio Oriente. Le relazioni ufficiali di Israele con i paesi asiatici risalgono tutte, a parte Singapore e Burma, dal periodo successivo alla caduta dell’Urss. L’interscambio economico con la Cina e le altre potenze asiatiche è già rilevante, si tratta infatti di 15 miliardi di usd. Con le attuali tensioni commerciali tra Cina e Usa, il rapporto tra Cina e Israele potrebbe diventare determinante, soprattutto nel campo dell’alta tecnologia. C’è anche in ballo il progetto di una ferrovia Eilat-Ashdod, la Med-Red, una linea che potrebbe una alternativa terrestre al Canale di Suez, con effetti strategici notevolissimi e appena immaginabili, oggi. Dove gli investimenti cinesi sarebbero rilevanti, vista la simmetria geografica e politica della Red-Med con la Nuova Via della Seta. Se l’Ue, con le sue attuali leggi commerciali, sostanzialmente punitive nei confronti dello stato ebraico, rimane un’area sostanzialmente nemica, allora è proprio Israele a aprirsi al commercio asiatico e, in particolare, cinese, che largamente sostituisce l’interscambio con l’Ue. Fatti economici, questi, che hanno ampie derivazioni strategiche: Israele si lega, diversamente dalla vecchia Europa “renana”, non raggiunta dalla nuova “Via della Seta”, alla grande area di sviluppo dell’Asia Centrale e, quindi, rallenta i suoi legami con gli Usa e, ancora di più, con l’Europa, ormai ipocritamente antisemita.

L’Asia è quindi una sorta di polizza di assicurazione, anche geopolitica, dello stato ebraico nei confronti dell’Occidente, che sarà sempre meno amichevole in futuro. E, in ogni caso, Israele potrà sempre aprirsi canali preferenziali ad Est, qualora essi si chiudano ad Ovest. Ma lo stato ebraico non vuole certo diminuire oggi i suoi rapporti con gli Usa e con l’Europa, anche se aumenteranno certamente le relazioni, anche di tipo securitario, di Gerusalemme con l’Est. Se, quindi, i rapporti con Washington si raffredderanno, anche dal punto di vista politico, Israele potrebbe aprire buoni contatti con l’India, mentre la Cina, a causa dei suoi ottimi rapporti con l’Iran, potrebbe non essere il partner esclusivo di Gerusalemme con l’Oriente. Sempre sul piano regionale, potrebbe essere utile una soluzione a lungo termine, se non definitiva, della questione palestinese. Se non si securizzano i confini tra lo stato ebraico e l’Anp, quel nesso strategico sarà sempre usato come spina nel fianco nei confronti di Israele, che non potrà mai diventare attore globale se non si libererà rapidamente delle vecchie memorie geopolitiche di tante guerre regionali. Come si può risolvere la tensione con i palestinesi, che potrebbe essere sfruttata, in futuro, da chiunque voglia indebolire lo stato ebraico? La soluzione di mettere l’Anp in mano alla Giordania è poco razionale. Il regno hashemita non ha la solidità economica e, forse, nemmeno quella militare, per ingoiare tutta l’area palestinese. Può certo diventare, Amman, un elemento di controllo dei territori palestinesi, ma non di più. La soluzione dello stato da costruire è comunque ormai fallita, e non certo per colpa di Israele. Allora? Si potrebbe pensare ad un’area controllata, sostenuta economicamente dai Paesi islamici, pro quota, ma non certamente dall’Iran. Altre vie non le vedo. Certo, però, è che il rafforzamento di buone relazioni economiche con l’Egitto, la Giordania, persino con l’Arabia Saudita, sarebbe utile anche per la risoluzione della querelle palestinese. Un altro elemento da non dimenticare è la superiorità strategica dello stato ebraico nell’ambito della cybersecurity, attiva e passiva, che può eliminare duramente molte tensioni prima che sorgano.

Certamente, la guerra cyber è, per lo stato ebraico, la possibilità di depotenziare le reti infrastrutturali e protettive del nemico tanto da non renderlo capace di combattere. È anche certo che Israele è un leader mondiale in questo settore, ma deve sempre mantenere il passo, la rapidità delle trasformazioni in questo campo è massima. Ma stanno anche arrivando i cyber-mercenari, e qui ci sarà da lavorare moltissimo. Ovviamente, anche se l’eccellenza della cyber strategy israeliana è notoria, occorrerà mantenere e migliorare ancora il livello e, soprattutto, dirigere le operazioni a distanza verso nemici e avversari, anche temporaneamente, ma nuovi e mai attenzionati prima. I nemici cambiano, ma è bene non fidarsi mai dell’amicizia eterna. Sarà bene, comunque, allontanarsi oggi dal modello occidentale della “società spettacolo”, che porta fuori dalla formazione tecnica, scientifica, razionale e storica i giovani, come oggi accade anche in Israele, e ritornare allo stile dei padri e dei nonni, con una migliore formazione scolastica e, quindi, una più efficace “nazionalizzazione delle masse” anche nelle Forze Armate. Sarà poi necessario investire ancora di più nella scuola e nell’università anche se, in Israele, non sono ancora arrivati allo stato disastroso di moltissimi stati europei e, soprattutto, dell’Italia. Sarà anche molto utile migliorare il rapporto tra università e sistema produttivo e militare. È molto difficile tutto questo, ma credo proprio che lo stato ebraico ce la farà, ancora una volta.


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